Il 16 novembre ricorre la giornata della lingua islandese. Solitamente, per l’occasione, si tiene un fitto calendario di eventi dedicati alla lingua e alla letteratura della Terra del Ghiaccio, con conferenze, convegni, spettacoli, dibattiti e molto altro. Il ministro dell’istruzione, per l’occasione, conferisce il premio annuale intitolato al poeta islandese Jónas Hallgrímsson che viene conferito a una persona che si è distinta in modo particolare per il proprio contributo alla difesa e allo sviluppo della lingua.
Per chi si fosse perso questa informazione, l’Islandese è una lingua germanica settentrionale, della famiglia indoeuropea. Discende dall’antico norvegese, con il quale resta, per certi versi, più riconoscibile del norvegese moderno, che si è evoluto rispetto alla sua fase medievale tanto quanto l’italiano si è evoluto rispetto al latino. L’islandese è più strettamente imparentata con il faroese, lingua parlata nelle Føroyar/Fær Øer, arcipelago-nazione all’interno del regno di Danimarca, e poi con il norvegese e le altre lingue scandinàve continentali, svedese e danese. Più alla lontana con tedesco e inglese. Le somiglianze tra queste lingue sono numerose, ma non sono subito ovvie a un profano. Essendo una lingua germanica, e dunque indoeuropea, l’islandese è anche imparentato alla lontana con l’italiano. Ciò si nota soprattutto da alcuni elementi molto arcaici del lessico, come le parole per pesce, fiskur, corno horn, padre faðir, madre móðir, capro hafur, suino svín, sole sól, grano korn, campo coltivato (latino: ager, da cui “agricoltura”) akur, dai pronomi ég (nel quale riconosciamo il latino ego), þú (“tu”, pronunciato “thu” con th inglese), dai numeri e da alcuni elementi grammaticali tipici delle lingue dell’Europa ma altrimenti rari nelle lingue del mondo.

Il 16 novembre fu scelto nel 1995 come data per celebrare la festa, perché si tratta della data di nascita di Jónas Hallgrímsson, il più importante poeta romantico islandese, e forse il più amato. Jónas fu anche un fervente nazionalista (mi raccomando, non chiamatelo “Hallgrímsson” perché non si tratta di un cognome: con i nomi islandesi si usa il nome e il patronimico la prima volta che vengono menzionati, dopodiché si usa solo il nome proprio; es.: “La prima ministra Katrín Jakobsdóttir è stata intervistata. Nell’intervista, Jakobsdóttir Katrín ha detto…”).
Assieme ad altri islandesi che avevano studiato all’università di Copenhagen, Jónas fondò la rivista Fjölnir nel 1835, pubblicazione letterario-linguistica con una forte impronta politica, nella quale vennero introdotte le idee romantiche al pubblico islandese. La rivista, nonostante ebbe un’accoglienza ambivalente all’epoca, ebbe un impatto duraturo sulla lingua islandese, contribuendo (ad esempio) all’affermazione di alcune convenzioni ortografiche arcaicizzanti, per le quali “spinse molto” uno degli autori della rivista, Konráð Gíslason.

La lingua islandese, come del resto la lingua di moltissimi altri stati europei, diventò uno dei più forti pretesti per sostenere la causa dell’indipendenza nazionale. Il nostro Cavour, che era di madrelingua francese, si scusava nelle sue lettere di non usare l’italiano, che aveva paura di “massacrare”, non essendone madrelingua, ma che riconosceva comunque come la sua lingua nazionale, assieme a tanti altri letterati e politici che peroravano la causa dell’unificazione italiana.
La lingua islandese si prestava particolarmente bene a discorsi di tipo nazionalistico perché era quella che meglio si prestava per accedere ai testi del passato nordico, nonché quella più conservativa tra le lingue scandinàve. Ciò conferiva grande prestigio, nella mente dei romantici, alla nazione che la parlava.
Ovviamente, però, la realtà è molto più complessa, e la lingua islandese è ben lontana dall’essere un fossile medievale tramandatoci intatto dall’era delle saghe. Negli ottocento anni intercorsi tra la stesura delle saghe e oggi ci sono stati una miriade di cambiamenti nella pronuncia, nella grammatica e nel vocabolario. Molto più che quelli intervenuti nell’italiano, effettivamente, perché l’italiano non è stato parlato (e mutato) dalle masse fino a poche decine di anni fa. Per secoli è stato una lingua che si imparava sui libri, e ciò lo rendeva meno soggetto a mutamenti, proprio come il latino. Oggi l’italiano sta mutando molto più rapidamente di quanto non abbia fatto dai tempi di Dante! L’islandese invece ha seguito un’evoluzione più costante, a partire dalla sua fase più antica, quando i primi testi sono stati messi per iscritto. Anche per questo, personalmente, non sono un grande fautore della pronuncia ricostruita che vorrebbe restituire una forma standard di islandese duecentesco, perché già nel duecento avvengono pesanti cambiamenti che portano l’antico nordico-islandese verso la sua forma attuale, come la fusione di æ ed œ in æ, e di ø ed ǫ in ö.
Fino al 1700, la grafia islandese si era evoluta di pari passo con la pronuncia, ma il nazionalismo ottocentesco imponeva una riscoperta e una riconnessione con le antiche (presunte) radici nazionali, e per sottolinearle si ricorreva spesso alla lingua e alla letteratura. In questo frangente, la grafia islandese passò attraverso diverse proposte e fasi, fino a stabilizzarsi nella forma attuale nel corso del 1900, come un compromesso tra forti tendenze arcaicizzanti e adattamenti alla pronuncia attuale.
In un manoscritto del 1600, per esempio, troveremmo la grafia “gjeingur” (che corrisponde alla pronuncia attuale) per quello che anticamente era pronunciato e scritto “gengr”. Sono intervenuti tre cambiamenti: la g ha assunto pronuncia “palatale” (come in “ghiaia”), la e si è evoluta in ei davanti a ng, e il nesso finale -gr ha sviluppato una vocale di supporto diventando -gur. Tutti e tre i mutamenti sono presenti nella grafia del Seicento, mentre lo standard di oggi, gengur, rivela soltanto l’inserimento della vocale di supporto. Questo significa che uno studente oggi deve imparare che “la g si pronuncia gj davanti a e, e la e si pronuncia ei davanti ad ng”, perché la grafia non rappresenta questi mutamenti. Se scrivessimo oggi come nel Seicento, ovvero “gjeingur”, il problema di imparare queste regole non si porrebbe. Basterebbe “leggere come si scrive”.
Anche in italiano, in misura minore, abbiamo regole di questo tipo: c ha pronuncia diversa davanti ad e ed i, ad esempio. In latino classico, tutte le c si pronunciavano con suono duro “k”, poi però il suono si è evoluto nella c di “cerchio” davanti a e ed i, e oggi dobbiamo imparare le regole ortografiche relative a questi suoni, mentre potremmo benissimo scrivere sempre “c” per il suono di ciao e sempre ch per il suono di casa. In effetti in italiano antico questa convenzione si trova: il motto della casa editrice Loescher recita «È bello doppo il morire vivere anchora», frase associata a Bernardino Corio, storico quattrocentesco. Tutte le lingue attraversano diverse tendenze e mode nelle regole che ne codificano la trasmissione scritta: anche per questo è sciocco infuriarsi quando qualcuno scrive *quore, squola, quoco o itagliano: sono grafie che rispecchiano correttamente una pronuncia reale della lingua che non ha nulla di più o meno corretto di quella canonizzata dalla televisione! La prossima volta che criticate come stupide le regole di ortografia inglese, francesi o islandesi, ricordatevi le volte che avete riso di qualcuno che ha scritto “quore”.
Per fare qualche esempio islandese, fino agli anni ‘30 del Novecento era uso scrivere “je” (secondo la pronuncia) quella che anticamente, fino al 1400, era una é. Oggi si è deciso di mantenere la grafia “é” anche se negli ultimi seicento anni la pronuncia è stata je.
Anticamente si usava la “z” per combinazioni di t/d/ð + s es.: verð + -sla = verzla; Ísland + -ska = íslenzka (con mutazione della vocale a in e causata dal suffisso -sk- affine al latino -iscus e all’italiano -esco). La pronuncia della z si è poi semplificata ad s, ma fino agli ‘70 del Novecento, i bambini islandesi dovevano diventare matti a scuola per imparare quando scrivere “s” o “z” per un suono che ormai per loro era sempre s. Oggi la “z” non si usa più.
È rimasta invece la lettera “y/ý”, nonostante molti propongano di abolirla, perché la sua pronuncia, anticamente una u-francese, è ormai la stessa di i/í, e anche questa causa un sacco di grattacapi a bambini e adulti che devono sempre chiedere «si scrive con “i” o con “y”?». Questa lettera era scomparsa dalla pronuncia nel corso del ‘400, e se ne trovano ancora residui nel secolo successivo, ma dal ‘700 in poi era praticamente scomparsa da pronuncia e grafia, per poi venire forzosamente reintrodotta dai romantici.
Ci sono tantissimi altri esempi, ma citarli tutti richiederebbe un libro intero! È comunque evidente come questa lingua abbia subito profondi cambiamenti mascherati dalla grafia conservativa impostasi a partire dall’Ottocento. In realtà anche l’islandese si è evoluto orecchio rispetto alla sua fase medievale, e non è vero che gli islandesi lèggono senza problemi testi antichi. Sarebbe come dire che noi leggiamo Dante senza problemi. In realtà è richiesta una preparazione considerevole, con la differenza che tale preparazione non è così impegnativa come quella necessaria per imparare una lingua completamente nuova.
Dal punto di vista della grammatica, l’Islandese presenta tre generi, maschile femminile e neutro, che non rispecchiano il sesso reale come i pronomi inglesi, ma sono semplici categorie grammaticali come in italiano. Gli articoli determinativi sono posposti come in rumeno, ovvero si attaccano ai sostantivi. Non esistono articoli indeterminativi. I numeri sono due: singolare e plurale (in islandese antico esisteva il duale nei pronomi di prima e seconda persona). Esistono quattro casi: nominativo, accusativo, dativo e genitivo. Gli aggettivi hanno due flessioni, una forte (usata con la forma indeterminata e nel predicato nominale) e una debole, usata quando i sostantivi sono alla forma determinata. I verbi hanno desinenze personali come in italiano, e possono essere deboli o forti. Quelli deboli formano il preterito (passato) con l’aggiunta di un suffisso dentale (come i verbi regolari inglesi). Ne esistono quattro coniugazioni. I verbi forti formano vari tempi con una mutazione della vocale radicale (come i verbi irregolari inglesi), la quale muta per infinito, presente, preterito singolare, preterito plurale e participio passato. I modi sono: infinito, indicativo, congiuntivo e participio.
Nell’ambito del lessico, l’Islandese tende ad essere refrattario ai prestiti da altre lingue (anche se ne esistono numerosissimi, è molto antichi, già dal latino). Alcune lingue, come l’Islandese o il latino, hanno una grammatica che prevede una modifica alle desinenze delle parole a seconda del ruolo grammaticale della frase. In latino io mi chiamerei Robert-us, ma se qualcuno fosse con me non sarebbe “cum Robertus”, quanto “cum Robert-o”, mentre mia madre, che in latino volgare sarebbe “mater de Roberto”, in latino classico sarebbe “mater Robert-i”. Se mi si chiamasse a gran voce, non si direbbe “We! Robertus!”, ma “We! Robert-e!”La grammatica islandese, come quella latina, richiede dunque che si possano modificare le parole in questo modo. Non tutte le parole straniere, però, si prestano a tale processo, perché accostando semplicemente le desinenze grammaticali necessarie, si creano accostamenti non ammessi dalla fonotassi della lingua (ovvero dalle norme che regolano le possibili sequenze di suoni in una data lingua). Per questo, l’Islandese deve fare ricorso in modo più forte ai neologismi. Non è come l’inglese per cui una parola può avere una forma sola, quindi prendi qualsiasi parola da qualsiasi lingua e la usi. Una parola islandese ha almeno 8 forme se è sostantivo, 24 se è aggettivo, e un’infinità se è verbo. Per questo si predilige la creazione di neologismi con materiale islandese. Rende più facile il seguire le regole grammaticali.
In qualche caso si è scelto di recuperare un termine antico, anche se mi viene in mente solo l’esempio di “sími” antica parola per “filo”, ormai in disuso, recuperata per dire “telefono”. È anche vero che laddove tutte le lingue europee usano composti neoclassici su base greco latina (per esempio nelle scienze e nelle tecnologie), l’Islandese conia nuovi termini con parole autoctone (biologia è “líffræði” scienza della vita), e questo un po’ è motivato dal nazionalismo forse, ma ha anche il grande vantaggio di rendere questi termini chiari e semplici anche a chi non sa il greco o il latino. Otorinolaringoiatra è háls–nef– og eyrna læknir “dottore di gola, naso e orecchie”, la lingua è così più “democratica”
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