Keldur, che in islandese significa “Paludi”, è il sito di un’antica fattoria in torba (la più antica del Paese conservatasi!) oggi protetta e gestita dal Museo Nazionale d’Islanda.

È l’unico edificio in torba di questo tipo ad essere sopravvissuto nell’Islanda meridionale: la torba è un materiale deperibile e va sostituito costantemente. Inoltre, non è esattamente il miglior materiale da costruzione sulla piazza, e con l’avvento della modernità, è comprensibile che il grosso degli islandesi abbia voluto lasciarsela alle spalle e dimenticarsene alla svelta. Keldur, assieme ad alcune altre fattorie in torba, è stata abitata fino alla metà del ‘900, ragion per cui abbiamo testimonianze ricchissime e dettagliate su come fosse vivere in questi edifici, e non era affatto una questione semplice. Oggi esistono una quindicina di fattorie in torba protette come siti UNESCO, e una miriade di altri edifici, più o meno recenti o antichi, costruiti con questo materiale. Vanno costantemente rinnovante e ricostruite, e la manutenzione è laboriosa e dispendiosa, perché dunque, per secoli e secoli, sono state l’esclusivo tipo di costruzione in Islanda?

Facciamo un passo indietro: l’Islanda è ufficialmente colonizzata a partire dall’anno 874 d.C., quando il nobile norvegese Ingólfur Arnarson fonda la fattoria di Reykjarvík, che diventerà poi l’odierna Reykjavík. Il prete cattolico Ari Þorgilsson il saggio, che fu il primo a scrivere testi in Islandese secondo quanto riportato nell’introduzione alla Heimskringla (raccolta di saghe sulle vite dei re norvegesi), ci racconta che, al tempo della colonizzazione, l’Islanda era coperta di foreste tra i piedi dei monti e la rive del mare. Nella Kjalnesinga saga, ambientata nella zona di Reykjavík, viene detto che un personaggio fece costruire la sua casa vicino ad una strada spianata attraverso un bosco perché farla altrove sarebbe costato troppa fatica, visto il fitto della vegetazione.

Bisogna resistere alla tentazione di immaginarsi un’Islanda coperta di foreste lussureggianti: probabilmente gran parte di questa copertura (ammesso che l’affermazione di Ari non sia esagerata) era costituita da arbusti e betulle alte non più di un paio di metri. Devono essere state comunque poche le distese di betulle di dimensioni più ragguardevoli, come quelle visibili oggi nelle foreste di Hallórmstaðaskógur e Bæjarstaðrskógur.

All’inizio del 1200 abbiamo l’inizio della stesura delle saghe degli islandesi, ovvero prose (o prosimetri) sulle vicende dei primi coloni del paese e dei loro immediati discendenti: faide, amori, battaglie, intrighi…e già in queste saghe inizia a comparire il problema dell’approvvigionamento del legname, che emerge dalla presenza di conflitti per il controllo di residue macchie boschive. Alla fine del medioevo, coperture arboree in Islanda non c’è n’erano quasi più.

Cosa è successo? I coloni avevano preso ad abbattere foreste per i pascoli e per creare carbone, ma non avevano fatto i conti con il suolo islandese: estremamente sottile e delicato, una volta scoperchiato e sfruttato si impoverisce e non produce più nulla. Poi intervengono il vento e l’acqua, che aprono uno squarcio nel sottile strato organico che copre la nuda roccia, e gli squarci piano piano (o anche molto rapidamente) si allargano. Ancora oggi l’erosione è un grave problema in Islanda, e far attecchire le piante sul suolo sottile e stremato non è cosa da poco. Ci si riesce bene con i lupini, che preparano il terreno e lo rendono adatto alla crescita di altre specie, come le betulle, ma a non tutti piacciono perché hanno la tendenza ad espandersi rapidamente e dominare il paesaggio.

Molti si domandano come mai non si costruisse in pietra, e la risposta è semplicissima: la pietra è fredda. Scaldare edifici in pietra durante un inverno rigido è difficile e dispendiosissimo, e l’Islanda, come detto, non aveva combustibile efficiente in abbondanza. Costruire in pietra avrebbe significato vivere in ghiacciaie!
Come si costruivano allora, le case, in un contesto dove alberi da legname non esistevano? La risposta è appunto nella torba.

Lo scheletro della casa veniva costruito con legname importato (dalla Norvegia o anche dall’America!) oppure con tronchi spiaggiati, e intorno adesso venivano posti i mattoni di torba.

Inizialmente, la casa era costituita da un grande ambiente, con un focolare al centro. Lungo i muri si trovavano panche per sedersi e per dormire. Potevano essere aggiunti spazi ulteriori aprendo delle porte nei muri e costruendo delle camere annesse, che potevano essere dispense o alloggi privati per il capofamiglia. Questo tipo di abitazione è visibile in alcune ricostruzioni fatte dagli archeologi, come Stöng o Eiríksstaðir. Lo sta zone poteva essere diviso in più ambienti tramite pannelli divisori in legno..

Nel 1300, con il principiare della Piccola era glaciale e il peggioramento climatico (che terminerà solo nell’Ottocento), le case lunghe del primo periodo vengono sostituite da un modello diverso, fatto da costruzioni più piccole, adibite a funzioni diverse, ma collegate e interconnesse, di solito disposte in fila, una di fianco all’altra. Il nome di questo stile architettonico è gangabær, qualcosa come “fattoria corridoio”. Nel 1800 si sviluppa invece la burstabær, dove la fila di case è sostituita da un edificio principale con facciata in legno, al quale sono collegati gli altri ambienti in un corpo unico tramite passaggi interni.

Con la divisione in edifici interconnessi più piccoli, il volume generale diminuì di conseguenza, anche per facilitare il riscaldamento, e a parte gli edifici adibiti ai lavori, come la cucina, la fucina, il deposito, la dispensa etc., la maggior parte della vita si svolgeva in quella che nel Medioevo era stata la stanza del bagno, baðstofa, ma che aveva ormai assunto il ruolo di ambiente polifunzionale.

Questa ospitava i letti, disposti lungo le pareti. Letti piccoli e stretti sui quali dormivano più persone, disposte testa contro piedi. Con così poco spazio si rischia di cadere, e gli islandesi hanno dunque creato un fermo che consiste in un asse di legno detta rúmfjöl “asse da letto”, la quale veniva rimossa durante il giorno e tenuta sulle gambe come piano per lavorare o mangiare. Spesso era finemente intagliata e decorata.

Il cibo veniva consumato in una sorta di brocca in legno con coperchio, detta askur, il quale poteva a sua volta essere finemente decorato. La sera, particolarmente in inverno, mentre si lavorava la lana alla luce di lampade ad olio di pesce o di balena, qualcuno leggeva ad alta voce i manoscritti delle antiche saghe islandesi, o recitava le loro trasposizioni in rima. Con l’avvento della stampa, accompagnato dalla riforma luterana, le saghe non presero ad essere stampate perché esistevano alcune riserve sulla loro liceità, ragion per cui furono copiate a mano fini al ventesimo secolo! La loro sopravvivenza è dovuta in larga misura al loro restare letture popolari per passare i lunghi e bui inverni.


Di norma la baðstofa era sopraelevata rispetto al resto della casa, perché l’aria fredda è più pesante, mentre quella calda tende ad accumularsi in alto. Con lo stesso principio viene mantenuta una temperatura di oltre 20° negli iglù, l’ingresso dei quali si trova in una conca scavata nel ghiaccio che fa sì che l’aria fredda che entra nel passaggio vi resti intrappolata, mentre il calore si accumula nel resto della cupola, la cui base è sopraelevata rispetto al passaggio di ingresso.

Il calore non era generato dal fuoco, perché non c’era legna da ardere, e la torba che veniva bruciata per cucinare faceva più fumo che calore, ragion per cui non poteva essere bruciata nell’ambiente in cui la gente passava la maggior parte del tempo, perché avrebbe annerito e intossicato tutto e tutti. Era la torba a isolare dal freddo e, laddove lo spazio sotto la baðstofa lo consentiva, il calore del bestiame, che saliva verso l’alto.

Sebbene la torba fosse usata come materiale da costruzione un po’ ovunque nel nord, è soltanto in Islanda che diventa il materiale da costruzione fondamentale, per case dei poveri come dei ricchi, e anche per le chiese.

La torba è fondamentalmente erba e altro materiale organico impregnato di acqua che non riesce a decomporsi per via dell’assenza di ossigeno nel suolo. È lo stadio iniziale della formazione del carbone fossile. A vederla sembra terra compattata. Le tecniche per il taglio sono assai diverse, così come quelle per il suo utilizzo come materiale da costruzione, e diverse regioni d’Islanda avevano tradizioni e metodi diversi. Esistevano appositi badili per il taglio di “mattoni” che venivano messi dapprima a essiccare, per venire poi disposti intorno all’intercapedine in legno degli edifici, a volte sopra ad una base in pietra, costruendo muri spessi anche più di un metro.

La durata di questi muri era molto variabile, ma si attestava a non più di due/tre decenni. Questo perché le radici delle piante che tengono insieme il materiale, finiscono con lo sfaldarsi, e i mattoni si sbriciolano. La parte interna della casa, per i ceti più abbienti, era rivestita da pannelli in legno, che rendevano l’aspetto assai accogliente, ma in molti casi il pavimento era in terra battuta e assai irregolare, mentre i muri erano di nuda torba.

Pur isolando dal freddo, la torba non è un buon isolante per l’acqua, e umidità e infiltrazioni erano una piaga costante per chi abitava in questi edifici.
Oggi queste case sono protette, o dal Museo Nazionale o, in rarissimi casi, da privati. Sono spesso poco apprezzate, nel loro valore storico-culturale, anche dagli islandesi stessi, che spesso le vedono come un retaggio di un passato povero e umiliante. Sono invece la testimonianza di un episodio della storia umana dal quale possiamo trarre tantissimi insegnamenti, a cominciare dall’abilità dell’uomo di sopravvivere in ambienti ostili, dai sacrifici che i nostri predecessori hanno fatto nelle loro dire esistenze, alla capacità della creatività umana di sbocciare nel cuore delle avversità: è in queste case umide e povere che è stata preservata, al lume di lampade ad olio di balena, una delle letterature più originali e stupefacenti della storia universale.
Rispondi