Laki, storia e leggenda dell’eruzione più catastrofica nella storia islandese

L’eruzione del Laki, avvenuta tra il giugno 1783 e il febbraio del 1784 riveste un ruolo importante nella storia islandese. Si tratta di una delle più famose mai avvenute, non soltanto perché è stata una delle più catastrofiche, con conseguenze gravi percepite anche ben lontano dalle sponde islandesi, ma soprattutto perché ammantata della storia eroica di un personaggio che è entrato nel mito locale con il soprannome di “Prete del Fuoco”: il reverendo Jón Steingrímsson.

L’eruzione è partita da una fessura non troppo diversa da quella della recente eruzione a Geldingadalir, ma lunga ben 27 km, e con una modalità dissimile da quella della corrente “eruzione turistica”, ovvero caratterizzata inizialmente da esplosioni causate dall’interazione della lava con l’acqua in superficie che, vaporizzando violentemente, “esplode” scagliando in aria cenere e rocce. Dopo qualche giorno le esplosioni hanno lasciato il posto all’effusione di magma, più simile a quella iniziata a Reykjanes nel marzo 2021. Questa eruzione epocale ha prodotto quasi 15 km3 di lava, che si è diffusa su una superficie di 580 km2, oltre a un’ingente emissione di gas tossici, in particolare acido fluoridrico e anidride solforosa. La distruzione causata dall’avvelenamento di aria, acqua e terra, con la conseguente moria di animali selvatici e domestici (si stima un 50% di tutto il bestiame), ha portato alla morte di circa un quinto della popolazione islandese. In tutto l’emisfero nord, le temperature sono crollate a causa dell’effetto filtrante che l’anidride solforosa ha avuto sulla luce solare, producendo magre annate in Europa, siccità in Africa settentrionale, diminuzione dei monsoni in Asia, e un prolungamento di una carestia in Giappone.

L’estensione approssimativa della colata. Il campo di lava di Eldhraun è il più esteso al mondo.

Nei momenti più tragici, tuttavia, gli eroi mostrano la loro vera stoffa, e nella calamità piombata sulle vite degli islandesi dell’ameno distretto di Vestur-Skaftafellssýsla, si è distinto particolarmente il parroco locale. Una personalità forte, generosa e responsabile, con acume scientifico, che si è rivelata un faro per la popolazione nel momento più difficile. Probabilmente basandosi su note e appunti stesi durante il periodo dell’eruzione, Jón ha composto un resoconto con le sue osservazione del fenomeno, completato nel 1788. Il manoscritto è stato pubblicato soltanto nel 1907, con il titolo Fullkomið skrif um Síðueld “Rapporto completo sul fuoco di Síða”. Il testo ci è pervenuto nel manoscritto originale, conservato alla biblioteca nazionale islandese con la segnatura Lbs 1552 4to.

A quel tempo non esistevano conoscenze scentifiche sulle eruzioni vulcaniche, ma il reverendo fece diverse osservazioni sul comportamento della lava e sugli effetti dell’eruzione che anticiparono scoperte della scienza più recente. L’interesse principale, tuttavia, credo sia sicuramente quello storico-antropologico, ovvero la finestra umana che apre su quell’evento. Contemplare un campo di lava creatosi a seguito di un’eruzione catastrofica può essere emozionante per alcuni che hanno una passione spiccata per eventi geologici, ma il lato umano delle vicende è qualcosa che raggiunge più facilmente il cuore di tutti.

L’articolo che segue sarà sostanzialmente un riassunto (parcamente) commentato del resoconto del reverendo Jón Steingrímsson.

Jón nota che gli anni precedenti all’eruzione erano stati anni di relativo benessere e “abbondanza” qualunque cosa tale termine volesse dire nell’Islanda di fine ‘700), temperature più miti, e resa elevata delle attività produttive. La popolazione si sarebbe dunque “adagiata sugli allori”, trascurando i doveri cristiani. Perfino i servi sarebbero diventati così schizzinosi, racconta il reverendo, da pretendere solo i cibi più raffinati, le feste sregolate sarebbero diventate la norma e brennivín e tabacco sarebbero stati consumati senza ritegno. Anche i preti si presentavano a messa ubriachi. In questo contesto, il reverendo vedeva l’eruzione come un monito/castigo divino.

L’autore racconta di segnali premonitori dell’imminente catastrofe: ci furono ingenti piogge la primavera precedente e comparvero insetti a strisce rosse, gialle e nere, grandi come un pollice, molti agnelli nacquero deformi, e i cavalli rovistavano più del solito tra i mucchi di letame. Nessuno avrebbe dato a peso a questi segnali di un’imminente flagello divino, nemmeno ai numerosi sogni premonitori che Dio avrebbe mandato a diversi popolani, i resoconti dei quali venivano accolti da scherno.

L’inverno precedente all’eruzione, per nove domeniche di seguito si dovette sospendere il servizio della messa a causa del maltempo, nonostante il meteo fosse buono per il resto della settimana, e la notte prima dell’ultima domenica di questa serie, Jón racconta di aver sognato una figura regale apparirgli e ammonirlo: “Ciò che sospetti è vero, ed è perché hai mancato di predicare alla gente come si conviene”. Interrogata la figura sul da farsi, questa avrebbe risposto “Isaia, Cap. 30. E che sia un segno per te sulla verità delle mie parole, che domani ti si presenterà un’occasione per il tuo servizio”. Il reverendo conferma che la premonizione si rivelò poi esatta.

Carta del distretto di Vestur-Skaftafellssýsla, con le aree interessate dal flusso della colata.

Il suo resoconto racconta che l’8 Giugno del 1783, nonostante il tempo calmo e sereno, comparve un nugolo di sabbia nera da nord, che in breve tempo investì le intere aree di Síða e Fljótshverfi. La polvere che cadeva a terra sembrava cenere di carbone. Una pioggerella che cadde quello stesso giorno, trasformò la polvere in un liquido nero e viscoso.

La nuvola fu allontanata da un vento da meridione, e la messa fu celebrata normalmente, ma poco dopo la terra prese a tremare. Il giorno dopo, il 9 giugno, la nuvola prese a salire più in alto nel cielo, e il fiume Skaftá prese a diminuire la sua portata d’acqua. Il giorno 10 cadde una pioggia mefitica che bruciava la pelle e gli occhi, causava capogiri, bruciava buchi nel fogliame, e causava piaghe al bestiame tosato.

L’11 giugno si abbatté una tempesta dalla nuvola nera, la quale coprì il territorio di materiale che impedì al bestiame di nutrirsi per i successivi cinque giorni. Il giorno dopo, la lava comparve dal canyon nel quale scorre il fiume Skaftá, con rapidità allarmante e boati terrificanti. Il giorno 13 fu caratterizzato da un aumento dei tremori e dei boati, descritti dal reverendo come il tuonare di una cascata in lontananza. Il giorno seguente, a una calma del vento si accompagnò una pesante caduta di cenere, che conteneva una lega di rame e ferro. Un’altra pioggia tossica, dal colore bluastro, causò difficoltà respiratorie a persone che avevano già problemi a respirare. Gli uccelli migratori fuggirono, e le uova che lasciarono alle spalle non erano commestibili per via del loro sapore di zolfo. Ci fu una moria di trote in uno specchio d’acqua della zona, e diversi uccelli venivano trovati morti a stormi interi, e l’erba prese ad appassire.

Gli uomini si adoperarono come meglio potevano, cercando di rastrellare la cenere dai prati, o provando a lavare l’erba raccolta, ma gli animali la rifiutavano, a meno che non venisse mescolata con fieno vecchio, e con il passare del tempo, le bestie presero ad accusare i sintomi della fame, dimagrendo, e non producendo più latte. Il reverendo, in un passo drammatico, racconta che purtroppo nessuno ebbe la lungimiranza di immaginare che sarebbe stato meglio macellarli tutti prima che avessero il tempo di deperire, così da avere almeno una provvista di cibo per le persone. Aggiunge però che i cavalli non avevano ancora mostrato segni di deperimento, una nota interessante che conferma l’elevata resistenza di queste bestie eccezionali.

Il 16 giugno, la lava eruppe dal canyon dello Skaftá, distruggendo due fattorie e raggiungendo il vecchio campo di lava tra Síða e Skaftártunga, distruggendo una foresta di betulle e salici che vi stava prosperando sopra, e dei pascoli nelle vicinanze. La colata raggiunse la zona della fattoria di Skál, per poi dirigersi a sud. A quel punto, tre fattori della tenuta di Mörtunga (uno dei luoghi della Saga di Gunnar), si sono recati sulla cima del Kaldbakur, uno dei rilievi più prominenti sugli altipiani, che iniziano subito oltre i dirupi caratteristici della regione, ai piedi dei quali si trovano le fattorie, tutte in fila. Dal monte avrebbero visto 22 sorgenti di fiamme innalzarsi dalla valle di Úlfarsdalur (se avete visto l’eruzione presso Geldingadalir, potete immaginarvi qualcosa di simile, ma su una scala estremamente più vasta), e la notizia provocò il panico, perché la gente temette che la lava si sarebbe fatta strada tra i monti, aprendo una breccia tra i rilievi, e avrebbe raggiunto il cuore del distretto.

Lo stesso giorno, Jón si recò alla fattoria di Skál per verificare se fosse possibile mettere in salvo suppellettili della chiesa del luogo, ed ebbe modo di fare alcune osservazioni geologiche interessanti sulla colata che avanzava. Notò nuova lava che emergeva dagli interstizi di quella più antica, intuendone i movimenti sotterranei, osservò l’interazione della lava nuova con quella vecchia, alla fusione di quest’ultima, e provò a gettare alcune pietre nella colata per verificare se si sarebbero poi fuse. Il fatto che non lo fecero fu usato per rassicurare la popolazione sulla protezione offerta dalle pareti rocciose che correvano lungo il distretto.

Quando, nel giorno successivo, Jón sarebbe salito sulla brughiera di Geirland (altro luogo della Saga di Gunnar!), e menziona un episodio che per le nostre sensibilità moderne è davvero toccante, anche se lui non lo avrebbe assolutamente inteso così: racconta che in una casupola lì in alto, sulle fredde e inospitali alture si erano stabiliti due uomini, i quali avevano abbandonato delle ottime fattorie nelle pianure dove si trovano gli insediamenti abitati. Questi uomini “erano molto affezionati l’uno all’altro in più sensi” (voru þeir haldnir samríndir í fleiru en einu), “e Dio, che vede tutto”, li avrebbe allontanati da quel luogo per primi, facendo avanzare la colata proprio in quella direzione, “ponendo fine ai loro atti e alla loro coabitazione”. Si trattava, ovviamente, di una coppia omosessuale, e mette davvero tristezza pensare alla disperazione di questi poveri uomini che, per vivere il loro amore in pace, avrebbero accettato di vivere in una casupola in una zona inospitale, ma che nemmeno lì abbiano avuto tregua, perché colti dalle forze della natura.

Canyon ai piedi della brughiera di Geirland.

Il 18 giugno, la lava aveva ormai riempito il canyon del fiume, e la fattoria di Skaftárdalur fu evacuata, con l’aiuto di Jón, che era stato un grande amico del fattore.

I giorni successivi, il fiume di lava continuò impetuoso e distrusse altre cinque fattorie e una chiesa nell’area di Meðalland, ma il vento (fortunatamente) tenne a bada la nube tossica, spingendola verso i ghiacciai (le strisce nere visibili sugli iceberg della laguna glaciale o ai piedi delle lingue di altri ghiacciai, sono appunto i depositi di eruzioni). A Síða, invece, la lava causò un alluvione alla fattoria di Skál bloccando il naturale corso dei due torrenti che scorrevano presso la fattoria. La gente e i beni preziosi furono rimossi in salvo e portati sul pendio dietro all’abitato, ma le mucche furono imprudentemente lasciate nella stalla e quando l’acqua fu salita in modo troppo repentino, allagandola, gli abitanti dovettero scoperchiare il tetto della stalla e recuperare le mucche con delle corde dall’alto. A questo segui una bufera con nevischio, e gli abitanti della fattoria furono costretti a restare diversi giorni in tende improvvisate sul pendio dietro la loro fattoria allagata da acqua bollente, che sarebbe poi stata ingoiata dalla colata.

In questo periodo, con il proseguire di deflagrazioni, esplosioni e spruzzi di lava, il veleno che cadeva dal cielo ingialliva e avvizziva la vegetazione e faceva ammalare gli animali. Jón nota addirittura quali furono le prime specie ad accusare i segni dell’avvelenamento e quali erano invece le più resistenti. Racconta dell’odore, pungente come quello delle alghe marine, misto a un fetore di putrefazione, alleggerito dalla misericordia divina grazie al profumo del fieno, delle foglie di betulla e del timo.

Questa situazione continuò per il mese di luglio, con la lava che avanzava inesorabile ingoiando fattorie e seguendo il corso del fiume, spingendosi verso Kirkjubæjarklaustur. La regione più a est di Síða, Fljótshverfi, dove oggi si trova il lussuoso Fosshótel Núpar, fu abbandonata perché coperta dalla cenere, i pascoli rovinati.

Il giorno 20 di quel mese, si verificò l’evento principale per il quale il reverendo Jón Steingrímsson è poi entrato nella leggenda: racconta che era una giornata nuvolosa, con tuoni e lampi, e con la terra che si scuoteva. Si decise a dire messa per chiunque potesse recarvisi, con il cuore greve del pensiero che sarebbe stata l’ultima. La lava avanzava verso Kirkjubæjarklaustur, i fumi e i vapori rendevano perfino difficile intravedere la chiesa. Tuoni e lampi facevano rimbombare le campane, e i tremori proseguivano. Racconta di come tutti fossero rassegnati e senza paura, pronti alla morte e a rassegnarsi nelle mani del signore. Qui il resoconto di Jón taglia corto: non vuole vantarsi, e anzi devia la discussione lodando il Signore a più riprese e saltando poi alla parte in cui la messa fu conclusa, ma la leggenda vuole che abbia ammonito i suoi parrocchiani nel sermone, invitandoli a pentirsi dei loro peccati e ad affidarsi umilmente al giudizio divino, rinfrancandoli e rassicurandoli che erano in buone mani, affidandosi completamente a Dio. Questo ricorda il passo drammatico della Saga di Njáll in cui, nella sua casa circondata dai nemici e data alle fiamme, Njáll ammonisce tutti a non abbandonarsi alla paura, perché “Dio non li avrebbe fatti bruciare né in questo mondo né in quell’altro”. Il suo corpo sarebbe stato poi trovato intatto, assieme a quello della moglie e del nipotino, sotto ad un tappeto. Morti probabilmente intossicati dal fumo, ma risparmiati dalle fiamme. A seguito di questo evento, Jón venne soprannominato eldklerkur, “chierico di fuoco”.

Croce commemorativa sul luogo dove sorgeva la chiesa in cui Jón ha recitato la sua messa di fuoco.

Alcuni sospettano che Jón sapesse quello che sarebbe successo, e suggeriscono che aveva osservato la lava intuendo che essa non avrebbe raggiunto la chiesa, ma io non credo. Senza contare il fatto che non si vedeva nulla, sulla strada per la chiesa, dal suo scritto emerge una rassegnazione e una paura che solo un uomo convinto della sua fine imminente può avere. Fatto sta che, come spiega, finita la messa, la lava anziché essersi avvicinata all’abitato, si era accumulata nello stesso posto, strato su strato.

Seguì una gioia indescrivibile, che tuttavia non era destinata a durare. Fino a settembre, la colata avanzò lentamente, devastando pascoli e fattorie. Jón racconta che i fuochi, ovvero le eruzioni sulla fessura, sulla quale si sarebbero formati i famosi crateri Lakagígar, continuarono a emettere lava fino al gennaio successivo. All’inizio di agosto, la colata bloccò poi lo scorrere del fiume Hverfisfljót, così che la sua foce divenne attraversatile a piedi, e proprio lì poterono catturare 26 foche.

Della vita in quei giorni, il reverendo racconta di come in alcune occasioni non si potesse lavorare al chiuso, di giorno, per via del buio causato dalla nube delle emissioni del vulcano (e le fonti di illuminazione artificiale andavo conservate per la sera!). La colata che proveniva dalla frattura si dirigeva in due direzioni, a ovest di Kirkjubæjarklaustur, e a est di Foss, l’ultima fattoria di Síða, che era effettivamente ormai circondata da ambo le parti dall’abbraccio mortale di due immense colate laviche. Le precipitazioni velenose e i fetori mefitici proseguirono. Jón però racconta, ringraziando Dio per questo, di non avere avuto nessuna paura.

La chiesa di Prestbakki, la fattoria dove visse e morì Jón Steingrímsson.

Verso la fine di agosto, Jón si recò ad est accompagnato da un ragazzo della fattoria di Hörgsland, per controllare i parrocchiani di Kálfafell e Núpsstaður, e per portare in salvo eventuali beni delle chiese locali. Solo il 21 settembre, la situazione prese a stabilizzarsi, con i fiumi che avevano trovato un nuovo corso è non sembravano più minacciare improvvise alluvioni verso i centri abitati. Le eruzioni continuavano e potevano essere viste dal monte Kaldbakur, sugli altipiani dietro a Síða, e solo a dicembre l’attività prese a diminuire. La sera della vigilia di Natale, Il reverendo descrive “una spessa nuvola sopra a Klaustur, o sopra il pendio appena dietro di esso”. Questa sembrava “una scultura, come una ghirlanda ovale di quelle poste sulle prue delle navi. Il rigonfiamento centrale era azzurro, con ramificazioni, riccioli e sfere che si protendevano nella ghirlanda stessa, e colorate di rosso accessi, rosso scuro, nero, giallo, rosa e zafferano, assieme a colori che non saprei descrivere”. Racconta di come molti visero questo fenomeno, e mi domando se non si trattasse del fenomeno, tipico del periodo invernale, delle nubi madreperlacee.

Lui ipotizza si tratti di un accumulo dei gas che salivano dall’eruzione che ormai li circondava, ma volle vedervi anche un segnale divino di carestia e morte. Nel capitolo conclusivo, dopo aver raccontato come i portenti dell’eruzione fossero gradualmente diminuiti nel corso dell’inverno 1784, fa un bilancio drammatico delle conseguenze:

Nubi madreperlacee che ho avvistato presso Síða a dicembre 2020.

I licheni e l’angelica, che erano raccolti in abbondanza, erano completamente annichiliti, così come la possibilità di cacciare cigni, la pesca alle trote nei fiumi del distretto, e i pascoli delle fattorie. Molti dei campi coltivati a foraggio erano diventati deserti sabbiosi. Le pecore furono disperse, e perirono annegate, soffocate, bruciate dalla lava o bloccate in luoghi impassibili. Centinaia e centinaia di pecore morirono, ma non si sa quante perché i contadini non le contavano più, viste le annate di abbondanza precedenti alla catastrofe. Quando finalmente ci si rassegnò a macellarle, erano così smunte che a malapena se ne poteva cavare qualcosa. La gente continuava a spostarsi da una fattoria all’altra in cerca di riparo. Chi rimaneva non riusciva a mantenere più di un paio di mucche, e il fieno che si riusciva a dare loro era talmente avvelenato che le fiamme si tingevano di blu, gettandolo nel fuoco. I cavalli non avevano più forza di trasportare alcunché, alcuni di loro perivano all’improvviso. Grazie al cielo, una fortunata pesca di salmone l’estate del 1783 servì ad alleviare la situazione.

A seguito dell’eruzione si verificò quella che gli islandesi chiamano Móðuharðindin (“Carestia della foschia”, in riferimento ai fumi tossici). I veleni e i gas facevano marcire la pelle delle bestie lungo la spina dorsale e le criniere e le code dei cavalli cadevano se tirate. Rigonfiamenti comparivano sulle articolazioni, e le teste diventavano gonfie e deformi. Gli organi interni imputridivano e le ossa si indebolivano. Le interiora erano colme di sabbia e vermi. Persone che si nutrivano della loro carne morivano. Gli zoccoli delle pecore cadevano o si aprivano in due. Le persone che non avevano provviste di cibo non adulterato dai veleni mostravano sintomi simili. Rigonfiamenti, sanguinamento delle gengive, dolori lancinanti ai denti, e sintomi ai legamenti paragonabili a quelli dello scorbuto nella sua fase più avanzata. Poi insorgevano tachicardia, difficoltà a respirare, minzione eccessiva e incontinenza. Giovani e vecchi perdevano i capelli. Le morti si concentrarono particolarmente all’inizio del 1784. Un terzo dei 601 abitanti censiti dal reverendo morì.

A causa della neve, quell’inverno, non era possibile trascinare i corpi dei defunti in chiesa, né trasportarceli a cavallo, essendo i cavalli praticamente sterminati — tranne per uno che Jón aveva acquisito l’anno precedente, e che si rivelò assai resistente: dei 76 morti di quell’anno, nessuno non ricevette degna sepoltura. Molti fuggirono a ovest, lasciandosi dietro tutto, e le loro proprietà venivano saccheggiate da ladri. Mancando combustibile, gli uomini presero a bruciare mobili e i pochi alberi (interessante notare come Jón condanni tale uso degli alberi: che fosse consapevole della loro delicatezza e del loro valore ecologico?). Alcuni fuggitivi trovarono asilo in contee vicine, dove i sovrintendenti furono in grado di aiutare fornendo razioni di cibo.

Quelli che restarono, si ingegnarono: si nutrirono delle pelli che avevano in casa, mangiando effettivamente il cuoio. Alcuni mescolavano fieno sminuzzato alla farina per “allungarla”, tutte le ossa di pesce che potevano essere reperite venivano tritate e cotte in un liquido lattiginoso che dava nutrimento. Alcuni presero a mangiare carne di cavallo, ma Jón dice che la maggior parte di questi perì, mentre il resto rifiutò categoricamente di nutrirsene. In primavera si misero a cercare radici, erbe e fiori, come il dente di leone. Qui il reverendo commenta quasi sarcasticamente che ora queste persone recitavano le loro preghiere davanti a cibo che, negli anni di abbondanza precedenti, non avrebbero nemmeno considerato tale. Il prezzo del bestiame aumentò come conseguenza della moria generale, ma giunsero anche aiuti economici da fuori che servirono ad acquistare derrate alimentari, e il naufragio di un mercantile lungo la costa permise l’acquisto di beni come farina, canapa e molto altro. Nelle aree dove le ceneri vulcaniche su erano depositate, l’erba riprese a ricresce bene.

Nonostante l’immane tragedia umana e animale, il bilancio a posteriori di Jón è positivo: i ricchi e arroganti contadini erano stati ridotti all’umiltà e alla ragione, rendendoli più miti e felici quanti più poveri erano diventati. Riporta anche che Dio, nella sua misericordia, abbia colpito soprattutto pascoli trascurati o terreni e fattorie popolate da gente in lite, così da costringerli ad abbandonare le loro patetiche questioni per concentrarsi sulla salvezza dei loro corpi e delle loro anime. Inoltre, per diversi anni, non un topo fu visto nel distretto. Nonostante la bestiola fosse stata un problema abbastanza serio in precedenza.

Si tratta di un resoconto commovente, vivido, drammatico e stupefacente nella sua lucidità accompagnata pur dalla profonda devozione del prete. Le tragedie umane del passato difficilmente ci toccano, perché sono spesso raccontate con distacco, e le vite umane diventano numeri facili da dimenticare. Ma il resoconto scientifico sulle volumetrie della colata e la composizione chimica delle emissioni poco può sul nostro animo rispetto al vivido ritratto della tragedia umana consumatasi e raccontata da quest’uomo straordinario.

Una piccola parentesi personale: il reverendo Jón Steingrímsson erail padre della trisnonna del trisnonno di Lára, come risulta dal database genealogico islandese, così che — in un certo senso — è un mio parente acquisito.

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