Il manoscritto pergamenaceo il cui soprannome è Helgastaðabók, ovvero “Libro di Helgastaðir” (una località nel nord-est dell’Islanda) è conservato nella biblioteca reale di Stoccolma, con la segnatura Holm. Perg. 16 4°. È stato composto in Islanda intorno al 1400, ed è una versione in antico islandese della vita di S. Nicola (sì, quello di Bari!): Nikulásar saga.
È uno dei manoscritti più riccamente decorati tra quelli di produzione islandese. Testimonianza dell’alto valore conferito alla letteratura agiografica (ovvero alle vite dei santi) nell’Islanda medievale.
Esso non è soltanto una dimostrazione della popolarità del culto di San Nicola in Islanda, ma anche la conseguenza di una connessione culturale che a molti potrebbe suonare improbabile: quella tra l’Islanda medievale e il capoluogo pugliese di Bari. Ma procediamo con ordine:
Le vite dei santi furono un genere letterario assai popolare e diffuso nel medioevo europeo, per la loro funzione educativa/didascalica. Questo genere non mancò di spopolare anche nella Terra del Ghiaccio, dove un folto gruppo di saghe composte in antico islandese sono dedicate alle vite dei santi, le cosiddette heilagra manna sögur.
Nel periodo cattolico, ovvero tra il 999/1000 e il 1550, il culto dei santi era estremamente fiorente, in Islanda, e San Nicola era uno dei più popolari, come testimoniano le numerose chiese a lui dedicate (41 chiese, 4 cappelle e altri luoghi per un totale di 60, secondo uno studio di Sigfús Blöndal). Probabilmente la sua popolarità tra gli islandesi era promossa dal suo essere, tra le altre cose, patrono dei marinai. Si trova al quarto posto, sul podio dei santi più popolari, dopo Maria Vergine (primo posto), San Pietro (secondo) e Sant’Ólafur (terzo). Perfino il santo patrono dell’Islanda, San Torlaco (Þorlákur) era meno popolare di San Nicola!
I pellegrinaggi degli islandesi nei luoghi santi della cristianità sono iniziati molto presto. Nella Grœnlendinga saga, o Saga dei groenlandesi, Guðríður Þorbjarnardóttir, dopo la fallimentare esperienza di colonizzazione del continente americano, nei primissimi anni del secondo millennio, torna in Islanda per poi partire in un pellegrinaggio che la condurrà fino a Roma.
L’importanza del pellegrinaggio religioso tra gli islandesi è testimoniato inoltre da un testo composto da un abate di nome Nikulás, del monastero di Munkaþverá, nell’Islanda del nord. Questo testo, le cosiddette Leiðarvísir, composto intorno alla metà del 1100, è una sorta di guida turistica per pellegrini. La sua composizione deve essere senz’altro stata giustificata da una forte domanda. Questo documento è molto interessante perché in esso compaiono molte curiose “islandesizzazioni” di toponimi europei, molte delle quali continuano fino ad oggi, come il nove di Venezia, Feneyjar, in Islandese, che oltre a significare letteralmente “Isole della Palude”, ha anche una fortuita e bellissima assonanza con il nome originale.
Appunto in questo testo sono elencate diverse città pugliesi, che riporto nella normalizzazione di Fabrizio Raschellà (1985-1986; 565):
Sepont = Siponto
Michiálsfjall = Monte San Michele
Barl = Barletta
Trán = Trani
Bissenuborg = Bisceglie
Málfetaborg = Molfetta
Júvent = Giovinazzo
Bár = Bari

Uno dei punti più caldi dei pellegrinaggi nei luoghi santi, era sicuramente l’attuale capoluogo pugliese di Bari. La Puglia è una delle poche regioni italiane, assieme a Sikiley (“Sicil-isola”), ad avere il nome tradotto è usato già nelle antiche fonti islandesi: Púll, o Púlsland. All’epoca indicava un’area più estesa del meridione italiano, ma il suo capoluogo attuale era incontestabilmente una delle mete preferite per il pellegrinaggio degli islandesi. Sigfús Blöndal, nel suo articolo sul culto di San Nicola in Islanda (Skírnir, 1949) menziona, tra i tanti Pellegrini islandesi che devono essersi recato a Bari, un tale Gizur Hallsson, che era presidente della corte legale suprema islandese (lögsögumaður), che si recò a sud tra il 1144 e il 1152 assieme al vescovo di Skálholt Klængur Þorsteinsson, e che compose un testo in latino, Flos peregrinationis, andato poi perduto.
Complice il fatto che Bari è il luogo dove sono conservate le spoglie di San Nicola, così amato dagli islandesi, il nome antico nordico-islandese della città lo troviamo in due fattorie islandesi, il cui nome è Bár. Una di esse si trova nel distretto di Eyrar a Snæfellsnes, l’altra nel sud-ovest, nella contea di Árnes.
Non soltanto, esistono due vecchi modi di dire in islandese (oggi purtroppo non più ampiamente in uso) che fanno riferimento alla meraviglia che la città pugliese doveva causare negli occhi dei Pellegrini islandesi abituati all’architettura povera in torba e legna del loro paese: “Það er ekki hér sem úti í Bár” (Qui non è come a Bari), quando qualcosa non è lontanamente paragonabile a qualcos’altro di grandioso, ma lontano; e poi anche “Það er úti í Bár” (É giù a Bari) quando qualcosa non è a portata di mano.
Tutto questo va a ulteriore dimostrazione di quanto ho sostenuto nel mio recente articolo sul falso mito del presunto paganesimo islandese, che sarebbe sopravvissuto alla conversione e avrebbe convissuto con un sottile e poco sentito cattolicesimo di facciata. Le testimonianze culturali raccontano una storia ben diversa: il cristianesimo e il culto dei santi erano fortemente sentiti in Islanda, e la sopravvivenza di eventuali tracce riconducibili a superstizioni pagane precedenti, poi “riciclate” in foggia cristiana non fanno dell’Islanda un’eccezione perché esse si ritrovano in qualsiasi cultura sopra la quale il cristianesimo si è diffuso.
Inoltre, ciò va anche a contraddire il mito, che tanti adorano perpetuare, secondo cui l’Islanda sarebbe stata un piccolo mondo a sé, una sfera culturale totalmente isolata e sviluppatasi senza nefaste contaminazioni esterne. Come dovrebbe apparire ovvio dalla lettura di questo articolo, l’Islanda medievale era ben lungi dall’essere un remoto microcosmo vichingo separato e “diverso”. Gli islandesi erano già da allora parte integrante del mondo culturale europeo, che conoscevano e nel quale si muovevano abilmente, partecipando in modo attivo alla fioritura culturale dell’Occidente Cristiano. Questo è importante ricordarlo, viste le numerose strumentalizzazioni (politiche e non) che vengono spesso fatte cercando di esagerare l’isolamento islandese.
Pensiamo sempre al Medioevo come epoca ignorante popolata fatta di genti fortemente localizzate, pensiamo ai Paesi attuali come blocchi ben distinti e abbastanza ben demarcati, e proiettiamo questo sul passato immaginando che questo aspetto fosse ancora più accentuato, perché siamo figli dei nazionalismi ottocenteschi, incoraggiati dalla situazione post-riforma in cui la cultura di élite (quella cattolica) del periodo medievale, che accomunava tutto il continente, era stata ormai scardinata. I popoli dell’Europa medievale sentivano l’appartenenza ad una cultura comune, è un senso di fratellanza derivante dalla religione.
Tutto quanto di negativo associamo al Medioevo: le guerre più sanguinose, l’odio di religione, la repressione sessuale, l’oscurantismo… sono in realtà elementi che caratterizzano l’età moderna, non il Medioevo.
Riferimenti:
Raschellà, Fabrizio. 1985-1986. Itinerari italiani in una miscellanea geografica islandese del XII secolo. Annali Filologia germanica. Napoli.
Sigfús Blöndal. 1949. St. Nikulás og dýrkun hans. Sérstaklega á Íslandi. Skírnir 69-97
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