Le avventure alla ricerca di tesori sono uno dei temi classici della letteratura e dell’intrattenimento. Il fascino della scoperta è qualcosa che tutti possono comprendere istintivamente, ed è per questo che a tanti piace seguire programmi di mistero che si promettono di svelare la verità dietro antiche leggende, o riscrivere la storia attraverso scoperte sensazionali.
La realtà, però, è che la scienza e la ricerca procedono in modo lento e attraverso metodi tanto rigorosi quanti inadatti a creare suspense in un contesto cinematografico. Dietro alle roboanti storie spesso usate per colorire il passato a fini turistici (o propagandistici) si nasconde spesso una realtà molto più prosaica, ma altrettanto affascinante. Purtroppo, l’attrattiva esercitata da certe creazioni fantastiche rispetto al passato rischia spesso di rendere ciechi riguardo a ciò che invece ci dicono i dati reali.
Per questo motivo, tantissime teorie sconclusionate senza alcun fondamento scientifico e che, anzi, sono facilmente demolibili sul piano scientifico con poche obiezioni logiche (o archeologiche), ricevono molto spesso grande credito e seguito nel pubblico. Piacciono, emozionano, e l’accademico guastafeste che sostiene sia tutto falso non è altrettanto affascinante da ascoltare.
Il motivo romantico dell’outsider osteggiato dagli accademici ottusi che fanno ostruzionismo alla sua sacrosanta e, alla fine, fruttuosa ricerca della verità, è troppo attraente perché perda la su attrattiva. Ecco dunque che ingegneri o periti tecnici si improvvisano storici, filologi e archeologi, e partono per missioni alla ricerca della verità in barba a questi polverosi accademici dalla mentalità chiusa. Il prototipo di questo eroe della conoscenza è Schliemann, al quale si accredita la scoperta di Troia, e ormai il folklore lo ha canonizzato come genio visionario al quale la storia ha dato ragione, con grande smacco dei professoroni antipatici che lo osteggiavano. La realtà è che il dibattito sul fondamento storico dei poemi omerici era già (ancora?) vivissimo, e Schliemann poteva contare su un team di accademici, delle loro ipotesi e delle loro informazioni… ma il piacere perverso di umiliare gente che ha più titoli di noi è un sogno proibito di tanti, e questi miti mantengono viva la speranza che ciò sia possibile.
Faccio queste premesse perché oggi mi sono cimentato appunto nella ricerca di un tesoro citato in una leggenda popolare islandese, e dico fin da subito — come si fa negli articoli accademici e all’opposto di quanto fanno in certe trasmissioni dozzinali acchiappa-ascolti — che la ricerca ha avuto esito negativo. Scoprire che una cosa che si cercava non c’è, o cercare e non trovare, sono risultati importantissimi perché avanzano la conoscenza lo stesso. Sapere che qualcosa che credevamo era in realtà infondato è comunque un progresso. Purtroppo, però, si tende a confondere il risultato negativo con il fallimento. Proprio perché l’atteggiamento amatoriale è quello della ricerca di un qualcosa, anziché della verifica del dato della su esistenza.

In questo caso, mi riferisco ad una leggenda tramandata oralmente e registrata in alcune pubblicazioni, come Íslenskar þjóðsögur og sagnir di Sigfús Sigfusson (1993), oppure Bidrag til en historisk-topografisk beskrivelse af Island di Kristian Kålund (1877–1882), secondo la quale Gunnar, protagonista della Gunnars saga Keldugnúpsfífls, avrebbe nascosto il suo tesoro in una grotta che si apre come uno squarcio sulla parete sud del monte Keldu(g)núpur. Se non avete letto la mia traduzione della saga, ve la consiglio come introduzione al genere.

Ho parlato di questa leggenda popolare in un mio articolo accademico del 2022, in cui suggerivo che il collegamento con il personaggio della saga è stato fatto a posteriori come modalità di attribuzione di significato al paesaggio. Come ho anche poi ribadito in una conferenza all’Università di Milano, tante storie che leggiamo nel folklore islandese sull’origine dei toponimi sono state in realtà inventate a posteriori per spiegare nomi di luoghi la cui origine era stata da lungo tempo dimenticata, e la grotta di Gunnar (Gunnarshellir) non deve essere da meno.
Che la grotta si chiamasse già così ma prendesse il nome da un Gunnar vero che nulla aveva a che vedere con quello della saga, o che non avesse nome e sia stata nominata così da qualcuno che aveva letto o sentito il racconto del “cenerentolo” di Keldugnúpur, sicuramente il collegamento tra essa e la saga è posteriore, visto che nella saga stessa questa grotta non compare, né viene menzionato il tesoro che le voci della zona vogliono si nasconda in essa.

In tale ottica è del tutto futile andare a verificare di persona cercando il tesoro. Se ascoltassimo i racconti popolari islandesi ci sarebbe oro in ogni anfratto di quest’isola… ma non ne viene mai trovato, stranamente. La tentazione è però sicuramente forte perché una vocina in fondo alla mente sembra sempre dire “Ma metti il caso che…”. Dunque per fugare ogni dubbio, mi ero messo in testa di entrare in questa grotta. E qui è sorto un problema: lo squarcio nella roccia è a parecchi metri dalla base della parete, che si trova in cima ad un pendio ripidissimo. Per i primi metri, la parete è addirittura leggermente inclinata all’esterno, e non ci sono appigli comodi. Ho rimandato dunque per tre anni, fino a che ho avuto l’idea di acquistare un drone.

Non ho avuto il coraggio di farlo entrare del tutto nella grotta perché avevo paura, inesperto come sono, di farlo sbattere contro la roccia e romperlo, ma sono riuscito a vedere chiaramente nella grande apertura.

Lo squarcio si stringe e sembra penetrare nella roccia verso l’alto, nel buio più totale, così che è difficile dire quanto esso si spinga all’interno, ma giocando con il photo editing sembra di capire che non ci sia molto più di un semplice anfratto.

L’andito, inoltre, non sembra che essere una pendenza nella roccia, senza alcun punto in piano. Niente spazio per tesori di sorta. Potrebbe essere franato e aver nascosto una parte sottostante, ma la trovo una possibilità remota.
L’altro mistero invece riguarda la presenza di una grossa croce (a occhio e croce sono almeno due metri di altezza). Voci della zona vogliono che sia stata incisa sulla roccia dai leggendari papar, eremiti anacoreti cristiani provenienti dall’Irlanda che le fonti islandesi medievali sostengono vivessero sull’isola prima dell’arrivo dei coloni norreni. L’archeologia non ha confermato la loro esistenza, la posizione della croce è parecchio strana ed essa viene menzionata per la prima volta nel 1948, come se l’avessero notata solo allora, anche se è ben visibile anche da sotto alla parete.

Escluderei che si tratti di un’incisione antica fatta da eremiti cristiani, perché è troppo grande e in una posizione strana. Inizialmente credevo potesse essere solo muffa o qualcosa del genere nella parete che aveva assunto per caso quella forma.
Non c’è dunque un tesoro, eppure dietro a questa — se vogliamo banale — leggenda locale si trova un cosmo intero di letteratura, tradizioni e informazioni da scoprire e studiare.
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