Flateyjarbók, tesoro nazionale islandese

Il codice pergamenaceo catalogato con la segnatura GKS 1005 fol. è a buon diritto considerato come il più grande tesoro nazionale islandese, in un Paese dove non ci sono grandi e gloriosi monumenti o tesori d’arte da vedere.

Questo manoscritto fu prodotto probabilmente nel Nord-Ovest dell’Islanda per conto di un signore locale, ed è stato compilato da due scrivani Jón Þórðarson e Magnús Þorhallson dal 1387 al 1394. Come riportato sul verso del foglio iniziale. Contiene una profusione di saghe, oltre a poesie, annali e genealogie e racconti. Alcuni di questi testi non si trovano in nessun altro manoscritto.

È una miniera di informazioni non solo per il contenuto, ma anche per lo studio della lingua islandese: sapendo esattamente la sua data di compilazione, perché fornitaci dagli scrivani, possiamo usarlo come punto di riferimento per datare altri testi confrontandoli con esso.

Il manoscritto, nel 1651, fu praticamente estorto all’islandese che lo possedeva, Jón Finsson, la cui famiglia in quel periodo si trovava sull’isola di Flatey nel Breiðafjörður. Per questo viene chiamato oggi Flateyjarbók, ovvero “Libro di Flatey”. La storia racconta che il vescovo, Brynjólfur Sveinsson, avesse insistito con il proprietario perché gli cedesse il codice, così da donarlo al re, offrendogli in cambio dei terreni. Jón all’inizio si sarebbe rifiutato, ma avrebbe poi donato spontaneamente il volume, cambiando idea poco prima che il vescovo se ne andasse.

Negli anni ’70 del ‘900, a seguito di una disputa pluridecennale, la “questione dei manoscritti” (handritamálið), la Flateyjarbók è stato il primo manoscritto ad essere restituito dalla Danimarca all’Islanda, assieme al piccolo Codex regius dell’Edda poetica, e da allora è custodito nella cassaforte dell’istituto dei manoscritti, appendice semi-indipendente dell’Università d’Islanda, che oggi si chiama Stofnun Árna Magnússonar í íslenskum fræðum (Istituto di Árni Magnússon per gli studi islandesi), che è il luogo dove lavoro.

Árni Magnússon era un professore islandese che lavorava all’università di Copenhagen e come antiquario per conto del re danese. Durante un lungo viaggio in Islanda per censirne la popolazione su ordine del re, si adoperò a collezionare quanti più manoscritti poteva. Alla sua morte lasciò tutto all’università di Copenhagen. Una volta che l’Islanda ebbe ottenuto l’indipendenza dalla Danimarca nel ’44, si pose il problema che tutti i tesori nazionali, i manoscritti contenenti i capolavori letterari del medioevo islandese, si trovavano ormai in un paese straniero.

La disputa aveva anche delle implicazioni legali: il testamento di Árni Magnússon parlava chiaro, la sua collezione era ceduta perpetuamente all’università danese, e i danesi non avevano la facoltà di cederla, perché si sarebbe creato un precedente legale per cui lo stato avrebbe avuto la facoltà di contraddire alle volontà di un testamento perfettamente legale. Alla fine si giunse a un compromesso per cui la collezione, pur rimanendo legalmente di proprietà dell’Università danese, attraverso l’organo denominato “commissione arnamafnæana”, fu fisicamente divisa tra l’istituto arnamagnæano di Copenhagen, e l’istituzione sorella di Reykjavík. I manoscritti ad argomento islandese sarebbero tornati in Islanda e gli altri sarebbero rimasti in Danimarca. La Flateyjarbók costituisce un’eccezione, assieme al Codex regius dell’Edda poetica, perché non sono ad argomento islandese, ma sono stati i primi ad esser resi per via del loro valore simbolico.

Questo sono io 6 anni fa, che studio quello che era il secondo tomo della Flateyjarbók.

Per decenni, la Flateyjarbók è rimasta, separata in due volumi per via della sua stazza, custodita in una cassaforte nell’istituto, visionabile solo in via eccezionale e con permesso speciale. Io — giusto per vantarmene un po’ — ottenni nel 2015 il permesso a seguito della mia ricerca tesi, per la quale ho esaminato contrastivamente la la lingua e la grafia dei due scrivani. A parte dunque poche eccezioni, il tesoro nazionale islandese è rimasto inaccessibile e invisibile.

Poco più di un anno fa, il governo islandese ha però sponsorizzato un lavoro di restauro di tre anni, volto stabilizzare il libro e restituirlo al pubblico. La restauratrice dell’istituto sta conducendo un lavoro certosino di riparazione di ogni taglio, piega o altro, catalogando ogni difetto, danno o intervento rilevabile sulla pergamena. Al termine del progetto il libro verrà ricucito in un volume unico monumentale, come doveva essere nel medioevo, e sarà completato in tempo per l’inaugurazione del nuovo edificio per gli studi islandesi, dove troverà posto in una mostra dedicata.

Lo stato di conservazione, rispetto a quello di altri manoscritti islandesi, è stupefacente. Visto l’alto costo di importazione, l’uso di pigmenti era raro bei manoscritti islandesi, ma Flateyjarbók è riccamente illustrata e decorata con una mano artistica d’eccezione. È stata pubblicata in varie edizioni, facsimile, diplomatiche, normalizzate, e alcune traduzioni totali sono in cantiere (ad esempio in Norvegese e in Inglese). Un’edizione a stampa richiede almeno quattro corposissimi volumi. È davvero un’opera immensa.

In esclusiva vi mostro una foto della nostra restauratrice, Vasarė Rastonis, all’opera su questo miracolo del medioevo islandese, la quale lavora in una stanza chiusa con umidità controllata per poter evitare che la pergamena si secchi e si rompa:

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