Tra un tour intorno all’isola e un altro, amo girare comunque per questo Paese, raggiungendo magari posti che non è normalmente possibile toccare nei tour classici, per una ragione o per l’altra. Nel nord est, la strada 1 che tende a seguire la costa, devia bruscamente verso l’interno e, dal lago Mývatn, punta dritta verso il capoluogo di Egilsstaðir, nell’Est, tagliando attraverso brughiere e deserti rocciosi. Tutto il tratto di costa che viene così bypassato e completamente tagliato fuori dal grosso dei circuiti turistici.

Per assurdo, il fatto che ci sia poca gente e poco traffico, fa sì che le strade siano impeccabili: sono tutte asfaltate, ma non sono danneggiate da un traffico eccessivo, per cui appaiono tutte come appena posate. Avendo un utilitaria, non abbiamo completato il giro della penisola di Melrakkaslétta, perché la strada a nord di Raufarhöfn fino a Kópasker è sterrata e non volevano tribolare troppo. Siamo quindi tornati a sud di Raufarhöfn e seguito la strada asfaltata.

Partendo da Reyðarfjörður, con una percorrenza di circa un’ora e mezza, abbiamo raggiunto la casa di torba-museo di Bustarfell. Non vorrei sbagliarmi ma credo si tratti della più grande del Paese, ed è sicuramente un gioiello storico che preserva elementi di epoche diverse. La proprietà di Bustarfell è nella stessa famiglia dal 1500, e il luogo ha dunque una storia davvero particolare. Si può circolare liberamente nelle stanze, ricchissime di arredi e oggetti d’epoca che permettono di immergersi nella vita islandese dei secoli passati.

Poco oltre Bustarfell, verso il paese di Vopnafjörður, si trova la Hofskirkja. La chiesa di Hof ha occupato un posto importante nella storia di Vopnafjörður sin dalle origini, sia come grande tenuta agricola che come dimora signorile. Vi si trovava la sede della potente famiglia degli Hofverjar era una famiglia che controllava la zona nel X secolo. Anche l’unico signore locale che fu anche ordinato sacerdote a Vopnafjörður nel XII secolo, Finnur Hallsson, visse a Hof. Si ritiene che la prima chiesa di Hof sia stata costruita poco dopo la conversione al cristianesimo. La chiesa attualmente in uso fu edificata però nel 1901, in sostituzione di una chiesa in torba di epoca medievale.

La chiesa di Vopnafjörður fu commissionata nel 1903 ed è un edificio protetto. Fino ad allora non c’erano chiese nel villaggio, e la gente si recava a messa a Hof. La pala d’altare nella chiesa di Vopnafjörður è del celebre pittore Jóhannes Kjarval ed è intitolata Il Salvatore parla al popolo. Il paese in sé è piccolo e grazioso. Vi si trova un piccolo museo di cultura locale dedicato soprattutto alla migrazione degli islandesi verso le Americhe e con un negozietto di artigianato.

La chiesa di Skeggjastaðir, tra Vopnafjörður e Þórshöfn, si trova su un sito di interesse storico: uno dei primi coloni d’Islanda, Hróðgeir il bianco, visse qui. Il libro delle colonizzazioni dice che lui avrebbe “rivendicato Sandvík a nord di Digranes fino a Miðfjördur”. Il confine tra le diocesi attraversava questa zona e i vescovi non furono mai d’accordo su quale fosse la diocesi di appartenenza della chiesa. Il vescovo di Skalholt vinse la disputa ed essa fu dedicata al Santo Þorlákur. Fino al 1841, quando fu istituita la contea di Norður-Þingeyjarsysla, la parrocchia comprendeva l’intera costa meridionale di Langanes. La chiesa attuale fu costruita nel 1845.

La strada percorsa attraversa brughiere, colline, laghi, e costeggia le sponde dell’oceano, cosparse di legname trasportato dalle correnti. Case abbandonate in luoghi remoti conferiscono all’atmosfera un tono nostalgico, che personalmente ho adorato.

Þórshöfn, “Porto di Thor” è un villaggio a vocazione ittica che sorge presso il terreno di Syðralón sul lato orientale del Lónafjörður, in una baia che offriva un buon porto naturale per le navi ed era usato come approdo fin da tempi antichi. La pronuncia di questo nome è difficile da illustrare a chi non conosce l’alfabeto fonetico internazionale, ma può essere approssimata così: “thóurs-höpn”; il th iniziale è pronunciato come in inglese, importante separare s e h, e non pensare che si pronuncino come sh in inglese, perché questo suono non esiste in islandese, mentre la n finale è sorda, quindi suona come un soffio dalle narici.

Alla fine del XVI secolo, erano soprattutto mercanti tedeschi che utilizzavano il porto, che chiamavano Dureshaue. Questo traffico terminò con l’introduzione del monopolio danese nel 1602, e da allora i poveri contadini della zona furono obbligati recarsi fino a Vopnafjörður per fare i loro acquisti, ma dal 1684 furono assegnati a Húsavík, con un percorso molto più lungo e difficile. Tuttavia, bontà delle autorità danesi, nel 1691 fu loro permesso di fare acquisti a Vopnafjörður. Durante il monopolio, gli abitati islandesi avevano specifiche stazioni commerciali assegnate per il commercio, se volevano comprare farina, zucchero, tabacco o altro, potevano andare solo in quella a loro assegnata, altrimenti venivano fustigati.
La chiesa del paese risale ai primi anni ‘90 e non mi ha entusiasmato particolarmente, ma il paesino in sé l’ho trovato molto grazioso e oltre le mie aspettative.

A circa un’ora dalla (quasi) ridente Þórshöfn abbiamo raggiunto la spettrale Raufarhöfn. Si tratta dell’ abitato più settentrionale d’Islanda, eccettuata l’isoletta di Grímsey. Qui si trova lo strano monumento detto Megalitico dell’Artico, idea di un uomo del luogo che aveva preso a costruirlo nel 1996 come hobby, e che consiste in una serie di archi di pietra allineati con i movimenti degli astri. Non è ancora compiuto, ma torreggia sopra all’abitato dove è ben visibile per chi si avvicina da sud.

Non lo nasconderò, Raufarhöfn non mi ha lasciato addosso una gradevole sensazione. Ho percepito il degrado e la povertà, che uno non si aspetta mai di incontrare in Islanda. Questo monumento, invece, aveva un non so che di terrificante e sinistro, forse perché mi ricordava elementi architettonici mordoriani dall’adattamento cinematografico de Il Signore degli Anelli. Molto più graziosa, invece, la chiesa del luogo, disegnata dal celebre architetto Guðjón Samúelsson.


Negli anni ’60, Raufarhöfn divenne il più grande centro per la lavorazione delle aringhe e ci fu un grande boom, che portò alla costruzione di 11 stazioni di salatura del pesce. Circa il 10% del reddito di tutta l’Islanda proveniva dalla lavorazione delle aringhe a Raufarhöfn. La popolazione era allora di circa seicento persone e durante la stagione della pesca di aringhe la gente accorreva al villaggio per la stagione così che la popolazione si gonfiava a oltre duemila, e quando alcune centinaia di barche furono aggiunte alla flotta, si raggiunsero i quattromila abitanti, cifre colossali per l’Islanda di allora.
Ma nel 1967 l’aringa scomparve, e i banchi si spostarono. Le strutture ad essa collegate furono abbandonate e per certi versi Raufarhöfn divenne una città fantasma. Sono stati compiuti sforzi per reagire, compreso l’acquisto di un peschereccio e la creazione di un’azienda di pesca, e la pesca e la lavorazione del pesce sono oggi l’occupazione principale degli abitanti del villaggio, ma la sensazione che si ha in questo angolo remoto dell’isola è che l’impatto del crollo dell’industria dell’aringa non sia ancora stato superato, nemmeno dopo decenni. La scuola locale conta solo 4 bambini, di cui 3 fratelli. I genitori rifiutano di farli andare in una scuola più grande nella vicina Kópasker. I problemi sociali sono abbastanza profondi, e di difficile soluzione. C’è molto isolamento, poca coesione… la comunità non sembra interessata a migliorarsi e sembra imperare una sorta di abbandono e apatia. A fronte di poco più di 100 abitanti, sono arrivate decine di rifugiati ucraini che sono stati sfruttati da uno straniero che ha comprato diverse case a prezzo stracciato e le ha affitta a prezzi esorbitanti. Qualche decennio fa, questo era considerato il posto più “trendy” della regione, dove le cose succedevano, le opportunità si aprivano e dove tutti andavano. Oggi non è rimasto praticamente nulla, e viene da chiedersi se non sia possibile trovare una soluzione efficace.
Tornati indietro e deviato sulla 85 verso Húsavík, troviamo Snartarstaðarkirkja, appena fuori da Kópasker, è abbastanza impressionante rispetto al circondario. Si tratta di una chiesa imponente, per gli standard delle chiese di campagna islandesi, e in un’area poco popolata. Non è antica, perché risale al 1929, ma contiene alcuni oggetti antichi provenienti dalla chiesa parrocchiale precedente, che fu dismessa nel 1928, come un candelabro del 1600 e una patena del secolo successivo. Accanto alla chiesa c’è un museo di cultura locale, ma al nostro arrivo era chiuso senza ragione. A Kópasker si trova il Centro sui Terremoti, che però risultava anch’esso chiuso senza ragione.

La chiesa di Skinnastaðir si trova sulla strada tra Kópasker e Ásbyrgi. Le chiese cattoliche in torba succedutesi qui nel periodo cattolico erano dedicate agli apostoli Pietro e Paolo. La chiesa in legno che si vede oggi fu costruita nel 1854. Ha un piccolo campanile e può ospitare 70 persone. Il soffitto è dipinto di blu e decorato con un arco sopra la porta del presbiterio.

Arngrímur Gíslason, un artista di Öxarfjörður decorò la chiesa con motivi di rose intrecciate sulle pareti e altri dipinti. All’inizio del secolo, la torre del tetto fu rimossa dalla chiesa e fu costruita una cantoria. Il campanile fu ricollocato in occasione del centenario. Tra i manufatti preziosi della chiesa ci sono due candelabri di rame, che il reverendo Jón Einarsson acquisì nel 1694, un calice d’argento e una patena del 1790 circa, due vecchi orologi, uno del 1824 e l’altro più antico, un antico pulpito in stile rinascimentale e un fonte battesimale in quercia. Questa era fortunatamente aperta, e ve la mostro perché è davvero un gioiellino.

Nonostante abbia visitato aree tra le più isolate e remote del Paese, dove il senso di isolamento delle comunità è palpabile, ho percepito qualcosa di positivo: l’impegno degli abitanti nel trarre il meglio dalla situazione. Þórshöfn e Vopnafjörður sono luoghi assai remoti ma con una bella atmosfera, e dove nei piccoli negozietto abbiamo trovato che c’era veramente tutto, dalle verdure, alla frutta, ai formaggi, alla carne al pesce… fino alla pasta Rummo! So anche già da altre realtà che i luoghi più remoti in Islanda sono tendenzialmente quelli dove la gente si sente meno sola, proprio perché l’isolamento geografico spinge le persone ad aggregarsi e socializzare tanto. Si soffre più solitudini in affollate e alienanti città del mondo, che nelle remote campagne islandesi. Nel caso di Raufarhöfn, invece, il discorso è più complesso, ma penso si intersechi con un discorso più generale di sviluppo economico che potrebbe passare per un turismo che però fatica ad arrivare. Penso che l’unica soluzione per migliorare l’economia di questi luoghi sia potenziare l’aeroporto di Egilsstaðir e accogliere voli internazionali. Non si può pensare che gente che arriva in Islanda per 5/7 giorni in media trovi il tempo di raggiungere luoghi così remoti. La maggior parte della gente si limita al sud perché l’unico aeroporto internazionale è lì. L’idea dell’aeroporto è stata spesso proposta ma manca una volontà decisiva da parte del governo. Per ora conviene troppo e a troppi grossi attori che tutto il traffico si concentri a sud.
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