Solitamente identifichiamo, con il termine “vichinghi” le genti che popolavano la Scandinavia nel medioevo, ma l’uso di questo termine porta ad un discreto numero di problemi di natura semantica e culturale.
Il termine ha avuto un’ampia fortuna nella letteratura accademica sul medioevo nordico, e si è imposto nel linguaggio popolare, con alcuni esperti che si strappano i capelli ogni volta che lo sentono, e altri che approfittano della sorta di fetish che il pubblico ha per questa idea romanzata di uomo antico-nordico per vendere libri, appiccicando a sproposito la parola nel titolo delle loro pubblicazioni.
La questione che viene sempre sollevata per prima in ogni discussione, è quella dell’etimologia, ovvero dell’origine storica del termine. Si cerca di capire da quale altro termine sia derivato, per trarne delle conclusioni. Il problema è che le etimologie dei termini non ci dicono nulla sul modo in cui i termini vengono usati: pirata significa, secondo l’etimologia della parola, “uno che prova”, disastro significa “stella non favorevole”, educare invece “tirare fuori” (qualcosa che i nostri insegnanti, troppo occupati a “mettere dentro” dovrebbero ricordare!). Queste informazioni sono interessantissime per gli studiosi, ma non ci dicono nulla sull’uso pratico e sul significato reale di questi termini nel mondo di oggi (o quello di ieri). Nessuno sa, ad esempio, quale sia l’origine etimologica della parola scorreggia, ma, ugualmente, non sussiste dubbio alcuno sul suo significato; così come non ci sono dubbi su cosa significhi la parola “vichingo”. Dunque non ci interessa sapere se vikíngr venga da vík “baia” (che è comunque ormai un ipotesi minoritaria in ambito accademico), perché questo non ha alcun peso sul piano semantico della parola nei contesti in cui viene usata nelle fonti antiche. In parole povere, quando nelle fonti troviamo il termine víkingr, questo non ha nulla a che vedere con “baia”, ragion per cui, cercare qualche astruso significato nella sua supposta parentela con “baia” non ci è di nessun aiuto nel capirne il senso, il quale è invece lo stesso che troviamo neintermini “pirata” o “delinquente”.
Per chi si ostinasse a restare attaccato all’etimologia di baia, sostenendo che essa trova la sua ragion d’essere nel fatto che i vichinghi prediligevano le baie per lanciare i loro attacchi, o perché originavano nella zona del fiordo di Oslo, Víkin (“La Baia”; sempre usato con l’articolo); i problemi con tale lettura sono i seguenti:
- I vichinghi non avevano rapporti particolari con le baie. Nelle fonti storiche, quando preparano gli attacchi tendono ad appostarsi o accamparsi in isole vicino alla costa o promontori. Dovendo razziare e scappare, da bravi pirati, non andavano certo a spingersi in potenziali trappole dentro a delle baie.
- Non emergono particolari concentrazioni di vichinghi dalla zona di Víkin tali da giustificarne l’associazione e, sebbene il suffisso -ingr sia usato tutt’oggi per i nomi degli abitanti di città o paesi islandesi che finiscono in -vík (un abitante di Reykjavík è un Reykvíkingur: un “reykjavichingo”), gli abitanti del fiordo di Vík(in) in Norvegia erano chiamati con un altro suffisso: Víkverjar, che troviamo anche nel nome dei romani: rómverjar, o dei polacchi: pólverjar.
È dunque chiaro come l’ipotesi della derivazione da “baia” sia davvero debole, e difatti non è più sostenuta dalla maggior parte degli studiosi, che propendono invece per la spiegazione secondo cui il termine derivi da víka, sostantivo che indica un turno ai remi e, per estensione, la distanza in mare coperta nel giro di un turno ai remi (Driscoll 2019, 22).
Non abbiamo prove che il termine víkingr avesse alcuna connotazione etnica e venisse usato soltanto per descrivere persone di etnia scandinava. Abbiamo invece diversi casi in cui il termine si applica a persone di altra etnia (Cf. Lind 2008):
La parola “wicing”, nelle cronache anglosassoni, è a volte glossata (tradotta a margine per aiutare il lettore) con il latino pirata.
Gunnar Karlsson (2016, 355) scrive (traduzione mia): “è indubbio che il termine víkingr nella lingua medievale nordica fosse un titolo professionale per un uomo che si dedicava alle razzie.
Nel 1772, viene data alle stampe una monumentale storia del cristianesimo in Islanda, Historia ecclesiastica Islandiæ, vergata dal vescovo Finnur Jónson, il quale scrive, nel presentare succintamente la storia della scoperta della sua terra: Islandia a Norvegis primum habitari cœpit temporibus Haraldi Pulchricomi Regis Norvegiæ. Naddoddus pirata qvidam Feröensis, domum versus tendens, ad orientale Islandiæ latus tempestate delatus est.
Ovvero: L’Islanda fu abitata per la prima volta dalla Norvegia durante il periodo di Harald il Bellachioma, re di Norvegia. Naddoddur, un certo pirata faroese, sulla via del ritorno, fu portato da una tempesta sul lato orientale dell’Islanda.
Questo racconto viene riportato dalla famosa Landnámabók, il Libro delle colonizzazioni. osservate la parola antico islandese che il vescovo ha tradotto con pirata in latino:
Svo er sagt, at menn skyldu fara úr Noregi til Færeyja; nefna sumir til Naddodd viking; en þá rak vestur i haf og fundu þar land mikit.
Così è detto, che alcuni dovevano andare dalle Norvegia alle Faroe; alcuni menzionano (un certo) pirata (di nome) Naddoddur; e poi (lui e i suoi) finirono alla deriva verso ovest e trovarono una grande terra.
Landnámabók, Cap. 1
Abbiamo poi una bella carrellata di fatti pertinenti:
- In un poema anglosassone della fine del primo millennio, Exodus, di ambientazione biblica, compare il termine sæwicingas (vichinghi-di mare).
- In Heimskringla, raccolta di saghe dei re norvegesi composta nel primo 200, troviamo che il re Óláfr Tryggvason viene attaccato da “vichinghi estoni”, mentre il re Sigurður il crociato (Jórsalafari) viene attaccato da “vichinghi” lungo le coste iberiche.
- Nella saga di Yngvar il viaggiatore, c’è un episodio di scontro con “risa ok víkinga” (giganti e nemici), dove vichinghi non significa nemmeno predoni di mare, ma semplicemente “malintenzionati”, che attaccano la nave di Yngvar da un’isola.
- Nell’omiliario islandese e in quello norvegese, il termine è usato con il senso di “assassino” (Gunnar Karlsson 2016, 354).
- Adamo da Brema, che scrive la sua Gesta Hammaburgensis ecclesiae pontificum (Gesta dei vescovi della diocesi di Amburgo) nel 1075, dice che: “ipsi vero pyratae, quos illi wichingos appellant”: “sono invero pirati, quelli che chiamano vichinghi”.
- Rómveria saga, una prosa antico-islandese che è una compilazione di tre traduzioni di testi latini (De bellum iugurthinum, Coniuram Catilinae e Pharsalia), presente il termine víkingr come traduzione del latino tyrannus.
Nell’articolo “Vikings!”, del prof. Matthew Driscoll (ordinario di filologia norrena all’università di Copenhagen), si trova questo estratto significativo (la traduzione è mia):
«Kristján Eldjárn, archeologo e direttore del Museo Nazionale di Reykjavík e presidente islandese dal 1968 al 1980, si lamenta in un saggio del 1982 che “nell’uso moderno il termine ‘vichingo’ tende ad essere applicato a tutta la popolazione dei paesi norreni nella cosiddetta Era Vichinga. È un uso pratico della parola”, continua, “ma è tutt’altro che corrispondente al concetto che esprime nella lingua del periodo. A quel tempo un vichingo era un pirata, ma se abbandonava quell’occupazione e tornava a casa, o si stabiliva come contadino, non era più un vichingo. Era un vichingo solo fintanto che era a bordo di una nave vichinga, e in nessun altro momento.”
Quindi, sebbene si possa forse giustificare l’uso del termine “Età vichinga”, ciò che non può essere giustificato sono affermazioni come “L’Islanda fu colonizzata dai Vichinghi nel IX secolo” (che produce oltre 3.000 risultati di ricerca su Google). Tra i primi coloni islandesi c’erano senza dubbio quelli che avevano partecipato alle incursioni vichinghe ad un certo punto della loro vita, e che si sono poi recati in Islanda per stabilircisi; non per fare razzie però, quindi non erano vichinghi. Né si può dire che termini come “cultura vichinga”, “religione vichinga”, “arte vichinga”, “civiltà vichinga” siano in alcun modo sensati. Provate a sostituire il termine con “Pirata”.
Il premio per l’insensatezza deve sicuramente andare a “Lingua vichinga”, il titolo di una recente introduzione alla lingua norrena: non esiste alcuna lingua vichinga, e un libro che pretende di insegnarla non può essere preso più seriamente dello “International Talk Like a Pirate Day ” (cade il 19 settembre, per chi fosse interessato).
Negli anni ‘80, Ray Page dell’Università di Cambridge, non certo uno che ci andava piano con le parole, ha iniziato una recensione della raccolta di saggi di R. T. Farrell “The Vikings” (in cui è apparso l’articolo di Kristján Eldjárn sopra menzionato) così: “Basta. Bisogna davvero fare qualcosa per impedire agli editori di inserire la parola “vichingo” nei titoli di tutti i libri che hanno argomenti vagamente medievali e più o meno germanici”.»
Anders Winroth, uno dei maggiori storici che si sono occupati di medioevo nordico, nel suo libro The Age of the Viking (2014) scrive:
The word “Viking” is rare in the Viking Age sources, but in modern times it has become a ubiquitous but ill-defined label. The original sense of the term is unclear, and there are many suggestions for ety- mological derivations. In this book, I reserve the term “Vikings” for those northerners who in the early Middle Ages raided, plun- dered, and battled in Europe, in accordance with how the word is used in medieval texts. Otherwise, I refer to the inhabitants of Scandinavia as Scandinavians.
«La parola “vichingo” è rara nelle fonti coeve, ma nei tempi moderni è diventata un’etichetta onnipresente, seppur mal definita. Il senso originale del termine non è chiaro e ci sono molti suggerimenti per derivazioni etimologiche. In questo libro, riservo il termine “vichinghi” a quei nordici che nell’alto medioevo hanno fatto incursioni, saccheggi e combattuto in Europa, secondo il modo in cui la parola è usata nei testi medievali. Altrimenti, mi riferisco agli abitanti della Scandinavia come scandinavi.
Neill Price, altro professore esperto del periodo Vichingo, nel suo libro The Children of Ash and Elm, a History of the Vikings (2020) ci dice invece che:
Cosa significa, effettivamente, “vichingo”? Dovrebbe essere usato, tale termine, e, in caso affermativo, come? Gli scandinavi dall’ottavo all’undicesimo secolo conoscevano la parola-víkingr in antico nordico quando veniva applicata a una persona, ma non avrebbero riconosciuto né se stessi né i loro tempi con quel nome. Per loro avrebbe forse significato qualcosa di simile a “pirata”, definendo un’occupazione o un’attività (e probabilmente relativamente marginale); non era certo un’identità per un’intera cultura.
Il compianto Eric Christensen, dell’Università di Oxford, in Norsemen in the Viking Age (2002, 3), chiarifica:
In questo libro, viking [e lo scrive in minuscolo! ndt.] significherà soltanto ciò che significava all’epoca: un pirata, un razziatore che andava per mare. Nessuna distinzione di sesso o razza è sottintesa, perché i parlanti frisone, anglosassone, irlandese, finlandese o lingue baltiche potevano essere ottimi pirati pure loro.
Si può giustificare un tale uso di “vichinghi”, come fanno alcuni, che – non ho mai capito perché – idolatrano questo termine sbagliato e vogliono mantenerlo come etnonimo per le popolazione del medioevo nordico adducendo che il fenomeno della invasioni vichinghe era qualcosa di caratterizzante di quelle società?
La risposta è “no”: se da un lato, l’occasione in cui un europeo del periodo alto-medievale era probabile che incontrasse uno scandinavo era nel contesto di un’incursione vichinga, non è assolutamente vero che tali incursioni occupavano un posto centrale nelle società del nord nel modo in cui pensiamo noi. Ci immaginiamo piccoli villaggi di biondi tatuati con acconciatura metal e intere carcasse di animali sulle spalle per tenere caldo (grazie, “History” Channel), i cui uomini, magari assieme a qualche donna, si imbarcavano lasciando indietro anziani, donne e bambini, per andare all’avventura e razziare quei cristiani che ci stanno antipatici perché ci ricordano il parroco dell’oratorio di quando eravamo bambini, che era un individuo riprovevole.
La verità è che le spedizioni vichinghe erano un fenomeno marginale nelle società nordiche, venivano organizzate generalmente da rampolli che non potevano aspirare ad eredità ma che avevano accesso a navi (le quali avevano lo stesso valore di una proprietà terriera), oppure da mercanti che avevano la disposizione violenta e volevano “arrotondare” i proventi dei loro traffici. Non erano il cuore della cultura di quei popoli. Il nome [vichingo] denotava l’attività di una minoranza di uomini (Downham 2010, 1). Sarebbe un po’ come usare il fatto che tanti giovani italiani oggi vanno in Erasmus, per chiamare tutti gli italiani del secolo XXI “erasmiani”. Sicuramente si tratta di un fenomeno non trascurabile, quello della “generazione Erasmus”, ma è ben lontano da essere l’elemento cardine che definisce la società italiana ed europea di oggi. Nelle saghe islandesi, quando vengono menzionati i vichinghi, generalmente si parla di una persona che “era stata un vichingo in qualche occasione”, o che “aveva partecipato a spedizioni vichinghe”. Non soltanto quelli che avevano fatto i vichinghi erano relativamente pochi, ma nemmeno lo erano stati a lungo! A meno che non si tratti di pirati professionisti, una vita a razziare è una vita assai pericolosa, che non vale il rischio. Specialmente se uno ha già un minimo di proprietà a casa propria. Sempre per colpa di History Channel, ci immaginiamo i vichinghi come gente che poteva andare tranquillamente in mezzo a centri abitati cristiani, ammazzare con le asce qualche cristiano rammollito dalla sua patetica religione e che corre a destra e sinistra urlando istericamente senza sapersi difendere, rubare il più possibile e tornare a casa scrutando l’orizzonte con espressioni sexy e mascoline. La verità è che le chance di sopravvivenza erano paragonabili a quelle di morte, e le società cristiane hanno massacrato gli invasori vichinghi altrettanto, se non più di quanto abbiano fatto i vichinghi con loro.
L’ultimo baluardo per i difensori dell’utilizzo del termine “vichinghi” come etnonimo per i popoli scandinavi dell’alto medioevo europeo è la sua supposta “comodità”. Sarebbe un termine comodo, veloce ed efficace. Il fatto è che, a differenza di altre popolazioni antiche come i minoici, noi sappiamo che termini usavano queste genti per chiamarsi, dunque non serve inventarmene uno, ed esistono già termini comodissimi: si può dire antichi islandesi o antichi danesi, esattamente come si dice antichi romani, togliendo poi “antichi” una volta che è chiaro che l’oggetto della discussione non sono i popoli odierni, oppure si può usare norreni, in particolare per i norvegesi e i popoli da essi derivati, come faroesi, islandesi e groenlandesi, in riferimento al periodo medievale. Autorevoli storici, come il compianto Gunnar Karlsson, professore all’Università d’Islanda, usano il termine Norsemen, non Vikings, per descrivere le genti che colonizzarono l’Islanda.
Purtroppo, si trovano profusioni di libri che grondano della parola “vichinghi”, ma che coprono periodi successivi alla fine de periodo delle incursioni vichinghe (intorno al 1000, convenzionalmente il 1066). Si parla ogni tanto di letteratura vichinga per le saghe islandesi, composte tra il 1200 e il 1400 (due o tre-cento anni dalla conclusione delle incursioni vichinghe), di Islanda vichinga in riferimento alla cosiddetta età degli Sturlunghi, quando ormai l’Islanda era già solidamente cristiana. Sarebbe anche ora di finirla.
C’è anche la questione meramente archeologica secondo la quale il termine “età vichinga” non sia appropriato a descrivere il periodo tra il 793 e il 1000 e qualcosa, come viene spesso fatto: di solito si giustifica tale nomenclatura con il fatto che quella fase storica fosse caratterizzata dalle incursioni piratesche dei popoli norreni ai danni dell’Europa occidentale, però incursioni piratesche nel nord stesso esistevano già da secoli, solo che erano state effettuate ai danni di altri pagani e non sono state documentare dai monaci cristiani a seguito di saccheggi di villaggi e monasteri. Avevano invece colpito altri norreni, balti, slavi… perché dunque la cosiddetta età vichinga dovrebbe coincidere soltanto con il momento in cui queste razzie presero a colpire popoli che potevano registrane gli avvenimenti per iscritto? allora bisognerebbe parlare di “periodo delle incursioni vichinghe documentate da monaci cristiani”.
Non è per niente chiaro perché incursioni che colpirono popoli analfabeti o pagani (altri norreni, sassoni, frisoni, slavi o balti) che erano state comuni nell’ottavo secolo e anche prima dovrebbero appartenere ad un’epoca diversa rispetto a quelle che furono registrate dai cronisti di Inghilterra, Irlanda e Gallia, ed è difficile accertare quando questi cronisti siano stati finalmente liberi dalle incursioni, visto che un re norvegese stava ancora razziando il Lincolnshire nel 1153 è un altro avrebbe invaso la Scozia occidentale nel 1263.
Eric Christiansen 2002, 6
Un lettore non esperto potrebbe giustamente domandarsi come mai tutta questa ostilità nei riguardi di una parola. Presto detto: il termine vichingo, non è una semplice parola come un’altra che va bene usate fintanto che siamo tutti d’accordo sul suo significato attuale. Si tratta di una parola con una storia politica molto pesante, che non manca ancora di esercitare un ruolo in certe frange estreme. Fin dal suo sdoganamento, nell’Ottocento, è stata indissolubilmente legata a concetti di superiorità culturale e – ancora più grottescamente – razziale. Ad essa non sono associate soltanto ridicole idee estetiche (una volta erano gli elmi cornuti, oggi sono i tatuaggi, le trecce con i lati della testa rasati, e gli animali morti sulle spalle), ma anche pericolose idee razziali. Lo stereotipo che ancora oggi ci trasciniamo del vichingo rude, bello e nobile viene sviluppata dai romantici del nord Europa (in particolare dagli inglesi) che cercavano un precedente storico alle brutalità commesse nell’ambito dei colonialismi europei. All’Europa medievale cristiana, dipinta come una cultura afflosciata dalla sofisticazione della civiltà e della burocrazia, un’Europa dove il cristianesimo aveva abolito la schiavitù e invitava alla fratellanza, venne contrapposto il “buon selvaggio” vichingo. Ovvero un guerriero violento che arriva, ammazza, stupra e prende quello che gli pare, ma che è giustificato nelle sue azioni e nel suo prevaricare per via della sua intrinseca superiorità razziale. I numerosi europei e americani che smaniano per provare di avere ascendenze “vichinghe”, stanno più o meno consciamente percorrendo lo stesso filone. Magari non si rendono conto del retroterra politico aberrante della loro fissazione sul rintracciare origine nordiche per se stessi, ma sono sicuramente anche loro preda dell’idea perniciosa per la quale discendere da questi immaginari supereroi renderebbe una persona del ventunesimo secolo in qualche modo superiore.
Eric Christiansen, scrive così:
Il progresso richiedeva lo schiacciare il debole e il degenerato. Ancor prima che il darwinismo facesse di ciò una dottrina pseudoscientifica. Soprattutto, però, le rozze bestie del Diciannovesimo secolo avevano bisogno di romantici precursori con simili tendenze a distruggere, bruciare, viaggiare, far baldoria e molestare suore. La borghesia di Scandinavia e Normandia poteva finalmente congratularsi con se stessa per i loro antenati inclini alla violenza e alla frenesia violenta e all’eccesso sessuale, ma che erano glorificati dalla storia, anziché ricercati dalla polizia. Zappatori oberati dal lavoro potevano finalmente arare i campi del Minnesota seguendo le orme di qualche immaginario Olaf o Sven che aveva battuto quelle strade ai tempi delle saghe. I patrioti della marina tedesca potevano conferire la cittadinanza tedesca onoraria ai loro lontani cugini, i vichinghi di Jómsborg [sulla costa sud del baltico]. La violenza non è mai così nuda da disdegnare di vestirsi con una pezza di storia e l’attrattiva della mancanza di inibizioni risuona attraverso la civiltà del consumo. Ancora negli anni 1950 e ‘60, la borghesia francese cadeva preda del ‘nudo e biondo selvaggio’. Cosa avrebbero fatto, questi fantasisti, se non gli fossero stati concessi i loro vichinghi?
Christensen 2002, 3.
Si tratta dunque di una parola storicamente connotata, che viene frequentemente pescata dai suprematisti bianchi come marker etnico per segnalare la propria superiorità razziale. Ci sono alcuni studiosi, come Merrill Kaplan dell’Università dell’Ohio, che si occupano di studiare l’utilizzo della simbologia nordica nella politica e negli ambienti razzisti: in America, una profusione di personaggi poco raccomandabili amano sostenere di avere “sangue vichingo” – ne ho conosciuti alcuni: in genere avevano un quadrisavolo o la nonna del trisnonno immigrati dalla Scandinavia – e sfruttano tutta la mitologia pop che circonda questo termine per conferirsi automaticamente una serie di virtù che avrebbero ereditato dai loro “antenati”. Questa gente scrive e pubblica libri deliranti sostenendo di voler rivivere il culto e i valori dei propri padri, quando in realtà stanno rimaneggiando dei temi e dei motivi (spesso senza fondamento storico) in chiave propagandistica, e con fini razzisti.
I vichinghi si prestano bene a idee razziste, perché la vulgata su di loro li dipinge come un popolo primitivo e nobile, qualcosa che attira molto individui socialmente male inseriti e spesso dalla bassa istruzione, alla ricerca di un modello di guerriero introverso, che disprezza la cultura “alta” dominante (quella classico-cristiana nella fase medievale, qualsiasi sua derivazione nel periodo attuale) e si pone in posizione di superiorità morale, la quale deriva da una sottesa o esplicita superiorità razziale. Nella serie TV Vikings, si gioca molto su questo tema per titillare il pregiudizio del pubblico che è probabile si appassioni di più alla serie: i vichinghi sono rudi e semplici, e in virtù di ciò sono più forti e indomiti dei popoli cristiani effemminati dalla loro patetica religione che li ha resi vigliacchi e imbelli. Questo offre un senso di rivalsa a persone che si sentono in posizione di inferiorità rispetto alla cultura dominante di oggi: sono poco istruiti e socialmente inetti, ma sono superiori agli altri perché, proprio come i vichinghi, non sono assoggettati al mainstream culturale, che è comunque fatto di inetti e degenerati. Molto spesso questo mainstream finisce per essere identificato con qualche cospirazione internazionale ebraica, il che conduce spesso ad aperto antisemitismo. Tale appropriazione della cultura nordica a fini razzisti ha una lunga storia nel mondo tedesco, ed era particolarmente presente nel periodo nazista.
Personalmente, ed è opinione comune fra colleghi, cerco di evitare l’uso di questo termine soprattutto perché esso evoca immediatamente tutte le associazioni sbagliate che ha accompagnato storicamente. Se usassi il termine “bizantino”, altrettanto sbagliato dal punto di vista storico, non susciterei granché di sbagliato perché l’incoscio collettivo non è particolarmente carico di preconcetti sui bizantini (anche perché non si sono mai prestati a discorsi di suprematismo razziale o erano-nazionalistico). Quando dico “vichinghi”, la gente si immagina subito le faccine attraenti degli attori belli, alti e biondi delle serie ti, vestiti con abiti in cuoio nero attillato, le teste rasate e i tatuaggi, che vanno in giro ad ammazzare quegli antipatici (e sfigati) cristiani. Non ci si scappa. E siccome è mia responsabilità assicurarmi che la mia scelta di parole trasmetta esattamente il messaggio che io voglio passare, so bene che devo evitare questo termine, altrimenti la gente capisce qualcosa di sbagliato.
Se vi eravate mai domandati a cosa servissero i medievisti, una risposta tra le tante può essere questa: a sbugiardare i razzisti che distorcono il passato per i propri fini politici. Il fatto di affermare con forza che il termine vichingo non avesse alcuna valenza etnica, va a smontare tutta la costruzione teorica su cui è basato il suprematismo razziale di questi personaggi. Già il fatto di mostrare la continuità con il mondo nordico post-conversione al Cristianesimo serve a mostrare come l’Europa settentrionale del medioevo fosse una realtà cangiante ed eterogenea, soggetta ad influenze e mutamenti interni nell’arco della sua storia. Non si trattò mai di una sorta di bolla isolata di perfezione razzial-culturale, come vorrebbero alcuni, ma di una normale società umana aperta alle innovazioni esterne. Lungi dall’essere un’età dell’oro dove la purezza etnica era la norma e il Cristianesimo era ancora lontano dal trasformare i nobili guerrieri in perdenti, la società del medioevo nordico acquista sfaccettature che rendono giustizia al suo vero passato, che non è un episodio di un cartone animato dai contorni e dai limiti chiaramente identificabili, ma un complesso intreccio che si svolge nella storia e che è un continuo divenire.
È dunque il caso di abituarsi a non usare il termine “vichinghi”, e parlare invece di “norreni, popoli nordici del medioevo, antichi svedesi etc.”.
Per approfondire:
- Christiansen, Eric. 2002. The Norsemen in the Viking Age. Oxford: Blackwell
- Downham Claire. 2012. Viking ethnicities: á Historiographic Overview. History Compass 10. Wiley-Blackwell.
- Driscoll, M. J. 2019. “Vikings!”. in Birkett, Tom and Roderick Dale (eds.). The Vikings reimagined. Berlino: De Gruyter.
- Gunnar Karlsson. 2016. Landnám Íslands. Reykjavík: Háskóla útgáfa.
- Gunnar Karlsson. 2020. Iceland’s 1100 years. London. Hurst & Co.
- Lind, John. 2011. “Vikings and the Viking Age”. N. Yu. Gvozdetskaya, I. G. Konovalova, E. A. Melnikova, A. V. Podosinova (eds.) ВИСЫ ДРУЖБЫ. Mosca: Dmitry Pozharsky University.
- Price, Neill. 2020. The Children of Ash and Elm: a history of the Vikings. Allen Lane – Penguin.
- Winroth, Anders. 2014. The Age of the Vikings. Princeton: Princeton University Press.
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