Le réttir sono un’occasione sociale, oltre che un evento fondamentale della vita contadina. Quest’anno vi ho partecipato con due amici siciliani e le loro rispettive compagne. Li ho presentati alla mia famiglia islandese, e per la prima volta si sono dedicati all’esilarante e sfiancante attività di trascinare pecore per le corna.
Le pecore islandesi vivono allo stato brado per l’estate: fino a settembre restano libere sugli altipiani. In inverno però non potrebbero sopravvivere quindi si riportano in stalla e si nutrono col fieno coltivato nei campi sparsi per tutta l’Islanda.
A fine agosto, gruppi di contadini a cavallo salgono sugli altipiani con i cani e dei walkie-talkie, e si fanno anche dodici ore a perlustrare l’interno fino ai ghiacciai. I cani si occupano di radunare le pecore che trovano sparse in giro. Alcune di queste battute possono andare male: possono trovarsi poche pecore o può esserci cattiva visibilità per via del meteo. È un lavoro davvero difficile. Questa attività si descrive con un verbo, smala, che si può tradurre con il nostro radunare.
A volte capita che se ne perdano alcune, che sono magari ben nascoste e non vengono quindi recuperate, ma se sono fortunate o brave possono sopravvivere e anche ritornare a distanza di uno o due anni!
Una volta finito di battere una zona stabilita, si guidano le pecore trovate giù dagli altipiani e le si stipa in campi appositi. Qui, in giorni stabiliti, ci si trova tutti per smistarle. Questo è il famoso evento delle réttir, ovvero delle “recinzioni“, dei “recinti“. La parola al singolare, rétt, indica appunto il recinto, mentre al plurale, ovvero réttir, si usa per indicare l’evento di smistamento del bestiame. Qui la grande massa di pecore viene divisa creando un cordone di persone che con qualche verso le fa scappare e le convoglia verso un recinto circolare con un nucleo altrettanto circolare, dal quale partono tante sezioni, come spicchi o fette di torta, disposte a raggiera. Questi spicchi sono i recinti individuali per ogni fattoria, e il lavoro della giornata è quello di trascinare le pecore dal recinto centrale circolare fin dentro il proprio spicchio.
Dal grande campo esterno in cui sono ammucchiate, le pecore vengono, come detto, convogliate a gruppi verso un’apertura del recinto circolare. Essa si apre su un corridoio che conduce al centro del recinto. Qui le pecore, bloccate, iniziano a correre prima in cerchio e poi da tutte le parti. Bisogna trovare le proprie nel caos generale, riconoscendone il codice numerico su una targhetta di plastica che hanno sulle orecchie, per poi afferrarle per le corna e trascinarle nella propria sezione avendo cura di sollevare le zampe anteriori da terra. alcune su lasciano a peso morto, altre di oppongono con forza e si divincolano. In quei casi è consigliabile afferrare un corno con una mano e infilare quattro dita nella parte molle sotto al mento. Dovrebbe calmarle. Una persona starà in piedi dietro al cancelletto per aprirvelo quando arrivate con una pecora scalpitante.
Se volete partecipare, potete presentarvi a qualcuno dei contadini e offrire il vostro aiuto. Ve ne saranno grati! Riconoscere i cartellini sulle orecchie è però un’impresa. Io non ci riesco davvero e non capisco come facciano i miei suoceri a colpo d’occhio. Quello che faccio è seguire loro, e quando trovano una bestia o la indicano o la afferrano e poi la prendo io e la porto via.
Questa attività è una delle tradizioni islandesi più antiche, ed è costume che parenti e amici dalla città si rechino in campagna per partecipare. Mi è piaciuto tanto perché ci si trovano, oltre ai parenti, anche vecchie conoscenze: ho rivisto uno dei bambini con cui avevo lavorato in asilo, che era in braccio alla sua mamma. Lei vive a Reykjavík ma ha connessioni familiari con la zona (è anche cugina alla-neanche-troppo-lontana della mia compagna). Uno dei miei amici italiani invece ci ha incontrato una sua collega di lavoro. In generale poi guardandosi attorno, si vede che nel caos generale del ripescare le pecore la gente comunque passa più tempo a rivedersi, salutarsi e scambiare qualche parola.
Il mondo però cambia, e ci sono molte forze al lavoro che contribuiscono al disfacimento di questa cultura antica che è rimasta in piedi a fatica nelle campagne islandesi. Le catene di distribuzione che fanno pressioni per il rilassamento delle leggi sull’importazione di carne, i costi esosi per le esportazioni, e la concorrenza a basso costo da grandi Paesi sta rendendo l’allevamento islandese sempre meno sostenibile, e la cosa è davvero grave da tanti punti di vista:
La carne di pecora islandese è l’unica sulla quale si può essere totalmente sicuri del suo essere “organica“. Non esistono fattorie a batteria qui, le pecore sono tutte in giro nella natura, e questo è sotto gli occhi di tutti. I campi sono coltivati a fieno per l’inverno, e non si vedono mangimi o altre schifezze. Tutto questo si sente nella qualità della carne di agnello locale.
Non solo è di qualità ineccepibile, ma è anche una delle poche fonti di sostentamento umano producibili in loco. Nel caso di un’esplosione vulcanica come quelle avvenute in epoche passate, potrebbero passare mesi o anni senza possibilità di ripristinare contatti aerei, oltre a lunghi periodi di comunicazioni completamente in tilt. Cosa mangiamo qui in Islanda se restiamo tagliati fuori da qualche catastrofe? La quinoa e il seitan?
Poi c’è la questione delle comunità rurali. Di cosa campano se la loro utilità viene di fatto azzerata? E se vengono completamente annichilite dal libero mercato, quali sono le conseguenze per l’Islanda che ha in queste comunità l’unico contatto con il suo passato? Quando intere comunità di pescatori sono state decimate dalle normative internazionali sul pescato, l’Inghilterra è rimasta l’Inghilterra, ma per l’Islanda restare senza allevatori sarebbe come per l’Italia rimanere senza artisti, senza storici dell’arte che ci raccontino il nostro passato.
Ci sono anche quelli che han letto da qualche parte che le pecore sono l’ostacolo più grande allo sviluppo di foreste, perché brucano tutti i nuovi germogli. C’è del vero in questo, ma è l’unica soluzione per gli allevatori, e un certo equilibrio si è comunque trovato grazie alla recinzione di numerose aree che sono state poi piantumate. Adesso ci sono quelli che si lamentano degli alberi e che dicono che l’Islanda era più interessante senza. Gente che fa critiche sconclusionate ce ne sarà sempre.
Fatti i dovuti conti, l’allevamento islandese è una parte importante di questa società che la ricollega con il passato, e un’attività economica ben rodata, radicata e sostenibile, ed è fonte di sostentamento non solo per chi la pratica, ma per la società islandese in generale.
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