Islandese antico e moderno: un confronto

Viene spesso e volentieri citato il fatto che l’Islandese sia una lingua arcaica e conservativa. Ciò ha del vero, se rapportata alla altre lingue scandinave, ma anche alle lingue romanze. A differenza dell’islandese, tutte queste lingue hanno perso un’importante categoria grammaticale, il caso, che esisteva in latino ed esiste ancora in islandese, ma che viene conservato soltanto per i pronomi personali (io/me/mi/mio, jeg/meg/min). Anche il modo congiuntivo è stato perso dalle lingue scandinave e non dall’islandese, così come le desinenze personali dei verbi. La formazione dei plurali e la flessione degli aggettivi sono una bazzecola nelle lingue scandinave continentali, ma mantengono una complessità notevole in islandese.

È però scorretto sostenere che l’Islandese moderno sia la medesima lingua dei testi norreni. Certamente esso ne deriva, ma le differenze intervenute nell’arco di 800 anni sono abbastanza notevoli, e islandesi senza un’istruzione superiore specifica faticano a comprendere i testi del periodo, così come noi fatichiamo a comprendere i sonetti stilnovistici o Dante. Nel medioevo, gli islandesi chiamavano la loro lingua “dǫnsk tunga” (lingua danese), probabilmente per via della prominenza politica e culturale della Danimarca. A quel tempo, i vari dialetti della Scandinavia conservavano però un elevato grado di intelligibilità reciproca. Nella prima età moderna, essendo il danese mutato parecchio, gli islandesi passano a chiamare la loro lingua, ben più conservativa del danese, norræna (norreno), e solo in seguito íslenzka (islandese).

È importante notare che dal 1200 al 1800, l’ortografia dell’islandese si è evoluta di pari passo con la pronuncia: cambiava la pronuncia e gli islandesi cambiavano l’ortografia. Con il romanticismo, però, e con l’accento posto sulla letteratura medievale usata come base dell’orgoglio identitario nazionale, si è voluta creare una grafia il più possibile vicina a quella del 1200, l’età dell’oro delle saghe. Questa grafia maschera enormemente la differenza tra islandese antico e moderno.

Ho seguito la lista di Stefán Einarsson nel suo volume Icelandic: Grammar, Texts, Glossary, Oxford; 1949), espandendola per aggiungere un certo numero di mutamenti che lui non copre. Per poterli comprendere appieno, è necessario conoscere o l’Islandese antico o quello moderno, ma anche per chi fosse a digiuno di entrambi, è possibile farsi un’idea di quanto sia insensato sostenere che gli islandesi di oggi parlino la stessa li già di un millennio fa.

Nelle desinenze che seguono una radice in consonante, tra il 1300 e il 1500 si è sviluppata una vocale di appoggio u, così che -r>-ur : hest(u)r, all(u)r, Hild(u)r, lif(u)r, hreið(u)r, fót(u)r; okk(u)r, ykk(u)r.

Le antiche radici in sibilante o sonorante (-s, -l, -n, -r) assimilavano la desinenza -r raddoppiandosi. In Islandese moderno questo raddoppio cade nel caso di: -ss>-s: ís(s), haus(s), kýs(s); di -rr>-r: her(r), Gunnar(r), annar(r); berr> ber; -e talvolta di -nn> -n in alcuni verbi.

La k in termini che ricevono poca enfasi nell’ eloquio si fricativizza: k>g in ek, mik, þik, sik, mjök, che era sono ég, mig, etc.

t in fine parola, se non accentata, si fricativizza a ð in at; þat, hvat, vit, þit, annat, farit, talit, lifat, che ora sono það, hvað, við, þið, annað, farið etc.

Il nesso (che era pronunciato uò/vò) viene scritto vo a partire dalla metà del 1300, dopo che la pronuncia della á evolve in quella moderna (au, come in Lára=Laura) in tutti i casi, tranne quando preceduta da v, dove mantiene la pronuncia di “o aperta”, che poi si fonde con quella di o (che inizialmente era più chiusa): ván, vár; hvárr, tvá; svá; þvá, várum; oggi si scrivono von, vor, hvor, etc. (ma la pronuncia è quasi identica a quella antica).

Nel corso del 1200, la “o aperta” breve, scritta “ǫ” nelle edizioni moderne, si fonde con la ø breve, entrambe diventano la ö dell’islandese moderno, mentre la “e aperta” lunga, scritta “æ”, e la “ø lunga”, scritta “œ” nelle edizioni moderne, si fondono entrambe in “æ” (“e aperta” lunga), che poi passa a dittongo “ai”.

Le vocali lunghe diventano dittonghi o cambiano qualità rispetto alle brevi: á (anticamente una “o aperta” lunga), diventa “au”, ó (anticamente una “o chiusa” lunga) diventa “ou”, æ, anticamente una “e aperta” lunga) diventa “ai”. La é (anticamente una “e chiusa” lunga), si evolve in je.

Dalla fine del quattrocento, nei nessi di vocale + gj/gi, la g cade e la j raddoppia: segja si pronuncia seija, tugi si pronuncia tuiji, bogi si pronuncia boiji, etc.

I nessi hl, hr e hn si sviluppano in l, r ed n sorde.

Le plosive lunghe, pp, tt e kk sviluppano una preaspirazione. Le sonore b, d, g diventano sorde e le sorde p, t, k diventano post-aspirate. La distinzione sorde/aspirate è mantenuta soltanto nel nordest. Nel resto del Paese si mantiene solo a inizio parola. In corpo di parola, sono tutte sorde e NON aspirate.

Nel 1500, collassa l’antica distinzione tra vocali brevi e lunghe, ereditate dall’indoeuropeo. Proprio come nel passaggio dal latino all’italiano, si crea un sistema per cui la lunghezza della vocale è determinata dalla lunghezza della consonante che la accompagna: se una è breve, l’altra sarà lunga, o viceversa. it. cāne (a lunga, n breve)/cănne (a breve, n lunga).

Nel corso del 1400, le vocali arrotondate y breve e ý lunga (pronunciate come la u francese), perdono l’arrotondamento e diventano identiche a i e ad í rispettivamente.

Dalla fine del 1300 e nel corso del 1400, i nessi ll, nn, rl, ed rn sviluppano una dentale di appoggio (solo in sillaba accentata nel caso di nn). fullur si pronuncia futtlur, einn si pronuncia eitn (con la n sorda, dunque un leggero soffio dal naso, quasi impercettibile), karlar si pronuncia kartlar mentre Arna si pronuncia Artna. Colloquialmente, la r può proprio sparire, così che si hanno kattlar e Attna.

Le vocali brevi diventano dittonghi o cambiano qualità davanti a ng ed nk tra 1300 e 1400: enginn, fenginn, löng, banki, sunginn, Ingi, yngri si pronunciano oggi come se fossero einginn, fringing, löing, bánki, súnginn, Íngi, Ýngri.

Con le radici in vocale, avvenivano delle contrazioni quando si aggiungevano desinenze in vocale, ad esempio blán, blám, trúm, snjóm, ma oggi le vocali sono state ripristinate: bláan, bláum, trúum, snjóum); ci sono alcune eccezioni (skóm, trjám, e non *skóum, *trjáum).

Alcuni sostantivi hanno cambiato classe flessiva: femminili come eyrr oppure heiðr (antichi temi in -u), seguono ora la flessione dei temi in -i: eyri e e heiði. Stesso discorso per alcuni maschili, come völlr o köttr, che facevano völlu e köttu all’accusativo plurale, ma che oggi sono velli e ketti.

I pronomi hanno subito cambiamenti importanti: hon, hánum, þessar, þenna, nökkurr e hvárgi sono diventati hún, honum, þessarar, þennan, nokkur, hvorugur, il nominativo maschile del dimostrativo sjá è ora þessi. L’antico duale è passato a plurale vit (noi due) e þit (voi due)> við (noi) e þið (voi), mentre l’antico plurale (vér e þér) diventa forma di cortesia. Anticamente, i possessivi alla prima e seconda plurale si declinavano in tutti i generi, numeri e casi. Oggi esiste una forma unica, come nel caso della terza singolare, okkar e ykkar, dove anticamente c’erano okkar, okkrum, okkarar, ykkrum, ykkart etc. Questo non vale per i possessivi del plurale di cortesia, che mantengono la flessione antica: vor, vort, vors, vorir, vorum, vorra, yðar, yðran, yðrum, yðars, yðarri, yðart etc., ma queste forme si riscontrano ormai solo in qualche documento legale, nella Bibbia, e in testi datati.

L’accusatico tvau del numerale tveir, e sjau diventano tvo e sjö.

Diversi femminili che uscivano in -ar al nominativo e accusativo plurale, escono oggi in -ir.

Moltissimi elementi del vocabolario sono caduti in disuso, mentre altro se ne sono aggiunti.

La sintassi è anch’essa cambiata, e l’ordine delle parole in una data frase, se poteva essere perfettamente naturale qualche secolo fa, può apparire goffo, contorto è arcaico oggi.

Anche i verbi sono interessati da diversi cambiamenti:

(a) La prima persona singolare dell’ indicativo presente di vera (essere) era em (inglese: am), mentre oggi è er. La prima persona singolare del congiuntivo presente usciva in -a: “at ek fara” (che io vada); oggi esce in -i: “að ég fari” (che io *vadi).

(b) La prima persona singolare dell’indicativo preterito (passato) dei verbi deboli e del congiuntivo preterito di tutti i verbi usciva in -a; oggi esce in -i

(c) Le tre persone plurali del congiuntivo preterito uscivano in -im, -ið, e -i ora hanno le stesse desinenze dell’ indicativo.

(d) La prima persona singolare del mediopassivo usciva in -umk, mentre oggi è -st. La prima plurale era -umsk, mentre oggi è -umst. Le altre forme uscivano in -sk, oggi in -st.

Quando si prepara un testo antico-islandese per la stampa, o quando lo si legge in classe, è abbastanza diffuso l’utilizzo della pronuncia islandese moderna. Esiste però un nutrito gruppo di studenti e studiosi che nutrono una certa antipatia per essa è preferiscono una pronuncia che rispecchi la grafia normalizzata dell’islandese classico. Faccio sempre notare, però, che questa normalizzazione è molto artificiosa, perché include alcuni mutamenti di periodi leggermente diversi (fine 1100 e 1200 inoltrato: il mio professore la chiama scherzosamente “la pronuncia dell’assolata estate del 1203”). Nessun manoscritto la presenta, e leggerla come è scritta, seppur più comodo a molti che non hanno voglia di imparare la pronuncia moderna, significa usare una pronuncia che non è mai esistita. Quando si sceglie la grafia e la pronuncia normalizzata dell’antico islandese classico (c.1200), inoltre, bisogna capire se essa è pertinente coi testi in questione. Se il manoscritto più antico di una data saga risale al 1400, in effetti, sarebbe assurdo pubblicarlo con la grafia classica, che risale a due secoli prima. Sarebbe come decidere di pubblicare Manzoni usando una grafia italiana rinascimentale e latineggiante. A questo punto, quando si deve decidere la pronuncia, entra in gioco il problema per cui la miriade di cambiamenti elencati sopra è avvenuta nell’arco di diversi secoli: cosa fare, dunque? Usare una dozzina di pronuncia diverse a seconda del secolo del testo? Sarebbe possibile, ma sarebbe anche uno sforzo davvero inutile, a meno che uno non stia proprio studiando l’evoluzione fonologica dell’islandese. Siccome per tutte le tradizioni letterarie è normalissimo che le generazioni successive utilizzano la loro pronuncia più moderna anche per la lettura di testi più antichi, mentre non si è mai sentito di popolazioni antiche che usassero la loro pronuncia per leggere testi moderni (e non succederà fino a che non inventeranno una macchina del tempo), ha molto più senso usare la pronuncia di oggi come pronuncia di lavoro, anziché usare una pronuncia artificiale ispirata ad una normalizzazione moderna di una grafia del primo 1200 per lo studio di testi pervenutici soprattutto in manoscritti ben più tardi (dal 1275 al 1500!).

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