Natale in Islanda ai tempi del Covid-19

Le autorità islandesi hanno rilasciato le linee guida per le festività. Per ora sembra non ci sarà lockdown, ma restano forti limitazioni. Non più di dieci persone possono riunirsi, e una distanza spaziale di due metri deve essere mantenuta. Nel caso tale distanza non sia praticabile è obbligatoria la mascherina. Nella consueta forma a cui ci hanno abituati dall’inizio della pandemia, i cambiamenti e le limitazioni introdotte hanno preso la forma di linee guida e raccomandazioni, facendo leva sul senso di responsabilità personale e sociale, piuttosto che sulla coercizione.

Essendo l’Islanda un Paese piccolo dove è più facile tracciare il percorso dell’epidemia, è diventato palese che i nuovi focolai sono sempre causati da assembramenti di persone che si recano a feste o simili senza le dovute precauzioni, o da individui che si sono recati al lavoro nonostante avessero sintomi. Appena le autorità inaspriscono le restrizioni, i numeri tornano a scendere, e le nuove infezioni sono tracciate con relativa efficienza.

In Islanda, nonostante i numeri esigui della popolazione (anzi, proprio a causa di questi) anche la quantità di servizi sanitari è esigua, e l’ospedale nazionale di Reykjavík si è trovato quasi sull’orlo del collasso pur avendo numeri di malati e ricoveri che in Italia avrebbero fatto ridere, se paragonati a quelli di città come Bergamo o Cremona. È dunque fondamentale controllare e alleggerire la pressione sul sistema contenendo ogni focolaio.

La strategia adottata in Islanda è stata quella di restrizioni “soft”, ma chiare, unitamente ad una politica di tamponi a tappeto (io stesso, a marzo, ero stato uno dei primi a ricevere l’invito casuale a recarmi per un tampone). Siccome il virus non si genera nell’etere o nei nostri polmoni per opera dello Spirito Santo, ma da qualcuno deve per forza uscire, i nuovi casi non tracciabili devono per forza essere stati innescati da qualcuno che ha infettato senza essere riconosciuto come malato, vuoi perché non aveva sintomi o perché ne aveva solo di estremamente leggeri, o perché li ha sviluppato solo in un secondo momento, dopo diversi giorni. In questo quadro, individuare ogni persona che è portatrice del virus e isolarla significa fermarla in tempo per impedirle di diffondere ulteriormente il contagio.

In Islanda non ci sono stati esperti (veri o presunti) che hanno negato l’infettività degli asintomatici, l’utilità dei tamponi, o che hanno sostenuto a inizio estate che il virus fosse clinicamente morto e non ci sarebbero state altre ondate. Anzi. Si sono intensificati i controlli a tutti gli ingressi (residenti e turisti) e alla popolazione in generale, e si è riuscito a limitare i danni. L’estate islandese 2020 è stata di relativa normalità, prima dell’arrivo della seconda ondata, giunta (pare) su un volo turistico.

Gli islandesi non sono per nulla disciplinati come lo stereotipo di ogni popolo a nord delle Alpi vorrebbe. Sono tendenzialmente meno teatralmente ribelli degli italiani, ma anche loro sanno infischiarmene delle regole quando ne hanno voglia, e difatti il capo della protezione civile ha rimarcato infinite volte quante situazioni incresciose e a rischio si siano verificate, spesso con conseguenze nefaste, a dispetto delle raccomandazioni: ci sono stati festini illeciti, ci sono stati malati che hanno mentito sui loro movimenti per la vergogna di ammettere di non aver rispettato le regole e hanno invalidato il lavoro di tracciamento, malati che sono andati al lavoro lo stesso perché avevano sintomi leggerissimi sperando non succedesse nulla e infettando, nel mentre, i loro colleghi…e via discorrendo. Il virus non può essere fermato con tamponi e limitazioni, se poi la gente elude la quarantena per farsi i fatti propri, non si lava e va in giro come se nulla fosse. Occorre uno sforzo da parte di tutti. Nonostante i casi di furbetti e menefreghisti, il grosso della società islandese ha avuto riguardo per le indicazioni dell’autorità sanitaria, e i risultati si sono visti.

Avendo optato per controlli severissimi agli arrivi (tampone, cinque giorni di quarantena rigida e secondo tampone), le visite sono crollate, e con esse il turismo, che era il settore economico più grande. Il risultato è che 20.000 persone sono senza lavoro, e la disoccupazione, che era quasi nulla, è schizzata. Le critiche sono state però poche. Penso che questo sia il grosso vantaggio di vivere in una società piccola: sei più a contatto con le varie realtà che la compongono. In grandi Paesi con società complesse è difficile preoccuparsi (e infischiarsene) per realtà che non si intersecano con la propria. Finché il problema non ti entra in casa, ritieni che non ti riguardi, che devi pensare al tuo, agli introiti etc. (giustamente). Qui in Islanda è stato possibile favorire quel senso di comunità per cui si è detto: siamo sulla stessa barca, aiutiamoci! Aiuti statali sono arrivati a pioggia, a imprese e disoccupati, e nonostante il debito pubblico. Il grosso della popolazione ha capito subito che c’era da armarsi di pazienza e rimboccarci le maniche: se fosse necessario entrare in lockdown per il bene della propria famiglia, dubito che alcun italiano si tirerebbe indietro, ma quando si tratta del Paese, essendo il senso di appartenenza alla nazione più flebile che in Islanda, ognuno ritiene che i propri interessi vengano prima di tutto. Non intendo giudicare questo atteggiamento come peggiore (ha i suoi pro e contro, come quello islandese), ma sicuramente non aiuta in questa situazione, dove gli errori di un singolo vengono pagati a carissimo presso dalla comunità.

Una volta chiarito che la responsabilità personale è il fondamento del successo nel controllo del virus (specie in un paese senza esercito e con poca polizia), e che il virus rallenta considerevolmente all’aumentare del rispetto per le regole, diventa fondamentale cercare la collaborazione delle persone. Lo slogan è stato Við erum öll almannavarnir “Siamo tutti protezione civile”. Facendo continuamente appello al senso di comunità, e alla responsabilità sociale, le autorità hanno sempre cercato un compromesso tra lo svolgimento sereno della vita dei cittadini e la sicurezza. Chiudendo e aprendo attività a seconda delle necessità, ed evitando lockdown totali.

Ora che si avvicinano le feste, e visto come è sentito il Natale in Islanda, anziché imporre limiti draconiani, si stanno suggerendo raccomandazioni più soft. Furbetti ce ne saranno, e qualche focolaio è facile che si crei, ma l’efficienza dei tamponi e il lavoro del team di tracciamento dovrebbero riuscire a far rientrare ogni emergenza, come sono riusciti a fare fino ad ora.

Per il nostro Natale, le raccomandazioni da osservare (prese e tradotte dal sito ufficiale Covid.is) sono le seguenti:

• Godiamoci qualche bell’incontro a distanza in digitale.
• Trascorriamo momenti piacevoli con la famiglia più prossima.
• Scegliamo gli “amici di Natale” (ovvero quelli che incontreremo durante le vacanze)
• Pensiamo alla salute e, occasionalmente, ad attività all’aria aperta in gruppi piccoli.
• Acquistiamo online, se possibile.
• Prepariamoci con una lista quando andiamo a fare la spesa.
• Compriamo i pasti nei ristoranti e portiamoli a casa.
• Se si verificano sintomi che possono indicare COVID-19, è importante rimanere a casa, fare dei test ed essere isolati fino a quando non è disponibile un risultato.

Ritrovi in casa e rinfreschi
• Informiamo gli ospiti dell’invito con largo anticipo in modo che abbiano la possibilità di stare attenti i giorni prima dell’evento.
• Seguiamo lo sviluppo dell’epidemia.
• Rispettiamo i limiti di assembramento e garantiamo le distanze minime e Ie precauzioni individuali.
• Evitiamo eventi di gruppi e buffet.
•Teniamo strette di mano, abbracci e baci per un momento migliore.
• Consideriamo la ventilazione per la durata degli incontri.
• Offriamo maschere se gli ospiti lo desiderano, laviamoci le mani e disinfettiamole regolarmente.
• Limitiamo le superfici di contatto comuni e puliamole spesso e regolarmente.
• Usiamo una maschera e laviamoci le mani regolarmente mentre prepariamo il cibo, lo serviamo e mettiamo in ordine.
• Limitiamo il numero di persone in cucina o dove il cibo viene preparato e dove si risistema dopo la cena.
• Limitiamo l’uso di utensili comuni, come coltelli da torta, caffettiere, pentole per il latte e così via.
• Laviamo i tessuti dopo ogni incontro, come tovaglie e tovaglioli.
• Evitiamo di cantare e parlare ad alta voce, soprattutto al chiuso. ‍

Da notare come le raccomandazioni sono tutte alla prima persona plurale “facciamo così”. Non hanno la dimensione del comando che avrebbe una seconda persona persona plurale “fate così” o il tono da imposizione divina della forma impersonale “fare/si faccia così”, un dettaglio antropologicamente interessante, che getta ulteriore luce sulla conformazione e organizzazione di questa piccola e speciale società.

Rispondi

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: