La luce era calda, non abbagliante. Il cielo era terso, ma i campi coltivati a foraggio tradivano la presenza di un vento fresco, che serpeggiava sui declivi piegando bruscamente i fili d’erba. Alla mia destra vedevo le distese sconfinate delle pianure alluvionali e dei sabbioni, striati da infiniti rigagnoli che intagliavano sinuosamente la sabbia nere. A sinistra, invece, le antiche scogliere – ormai lontanissime dal mare – si innalzavano ora bruscamente, ora gradualmente come un’interminabile parete impenetrabile, dietro alla quale si stendevano, infiniti e immoti, gli altipiani. In fondo alla strada, verso est, si vedeva distintamente il profilo del Ghiacciaio della desolazione, e nel mezzo, un po’ più slanciato del resto della calotta, e a forma di piramide, il picco detto Hvannadalshnjúkur. La calotta, contenuta a malapena dalle montagne seghettate, scivolava inarrestabile verso il mare, dove – sapevo – si frantumava in tanti pezzi dalle forme curiose, che fluttuavano placide in una vasta laguna, prima di ammassarsi presso la breve strettoia che le avrebbe condotte all’oceano aperto.
– Non ci credo! Saltò su Lalli dal sedile del passeggero.
– Di solito c’è troppa foschia… commentò la sorella dal sedile del guidatore.
Arrivati alla fattoria dei loro genitori, io fui subito sorpreso dagli inarrestabili belati. Non era come lo scorso inverno. Tutto intorno era verde. Il pendio dietro alla casa era coperto di erba, la casa della nonna era celata da fronde delicate, ancora al primo verde. La stalla era vuota e le pecore, tranne alcune che stavano ancora per partorire, erano nel campo che circondava la stalla, oppure sui declivi. Il rabarbaro svettava su una piccola aiuola nel mezzo dell’aia. Nei campi che per chilometri si spiegavano fino alla riva del mare, mandrie gloriose di cavalli islandesi.
Entrati nella casa dei loro genitori, fui assalito da un profumo di cibo, condito con i commenti di una bambina islandese. Alcuni vicini erano venuti a trascorrere il venerdì sera nella fattoria. La serata trascorse placidamente, mentre io timidamente cercavo di tenere il passo con la conversazione in islandese, finché non andammo nella stalla con la madre di Lalli per nutrire due agnelli orfani, la cui madre era morta cadendo in un fossato. Più di cinquecento pecore in una fattoria gestita da sole tre persone. Il lavoro era tanto, ma credo che per qualcuno che ami la libertà ad ogni costo, e la natura incontaminata, ne valga davvero la pena. Poco prima di andare a dormire, nonostante la luce fosse ancora molta, scese improvvisamente una fitta nebbia, che rese il panorama circostante identico a quello a cui ero abituato negli inverni umidi della bassa padana.
La mattina seguente, mi svegliai al profumo inconfondibile dell’avena cotta nel latte. Lalli aveva già sistemato le scodelle sul tavolo. La pappa d’avena, una spolverata di cannella, qualche mandorla, una tazza di tè per me, una tazza di caffè per lei. Fuori la luce non accennava a demordere. Era sopravvissuta alla notte, nonostante il momento di défaillance della sera prima, quando era scesa la nebbia.
Terminata la colazioni andai nella stalla, ad accarezzare gli agnelli. Era curioso osservare le loro diverse personalità. Quelli più paurosi che scappavano, gli stessi il cui piccolo cuore sembrava esplodere se provavi a tenerli in braccio. E quelli coraggiosi che ti saltavano addosso, e non sembravano spaventati a lasciarsi sollevare da terra. Una pecora stava per partorire. La sua parte posteriore era gonfia e pulsante, e sul suo muso era dipinta un’espressione di confusa preoccupazione.
Avevo sempre amato il Sud. La gloria svettante dei monti, e la maestosa temerarietà dei grandi ghiacciai non si trova altrove. Almeno non nella stessa misura. Perfino i mitici fiordi occidentali, in tutta la loro primordiale e antica bellezza, non reggono al confronto. I loro monti formatisi in ere remote nel corso di eruzioni subglaciali hanno le cime piatte. Se li fotografi da un fianco si vedono solo una striscia blu per il mare, una marrone per le alture, e una azzurra per il cielo. Qui nel Sud i monti eran degni del loro nome. E mi bastava guardar fuori dalla finestra per ricordarmi di quanto fosse vero.
La domenica mattina, Lína si mise al volante, e prendemmo la strada principale verso est, deviando ad un certo tratto proprio al limitare del deserto nero di Skeiðarársandur, quella gargantuesca distesa di detriti depositati dalle furiose inondazioni provenienti dal cuore del Ghiacciaio dei Laghi. Salimmo leggermente su una dolce pendenza, e incontrammo una recinzione con un cancello, davanti al quale la strada era invasa dall’acqua. Addi scese ad aprire il cancello, così che la macchina poté proseguire su quello sterrato, andando verso quella che sembrava la casetta più graziosa che avessi mai visto. Da lontano vidi la sagoma di un uomo, che stava impalato sul bordo del piccolo terrazzamento su cui poggiava la casetta. Mentre ci avvicinavamo notai il suo sguardo torvo, che si tramutò immediatamente in un sorriso da un orecchio all’altro quando riconobbe i passeggeri della vettura. Credeva fossero turisti. Da queste parti non li amano particolarmente. Ne arrivano troppi, si perdono, si fanno male, fanno danni e disturbano le attività agricole. A volte sconfinano nelle abitazioni private senza nemmeno bussare, chiedendo dove si debba pagare per sostare in un campeggio che magari si trova a chilometri di distanza. Non parliamo poi dei rifiuti che lasciano in giro, del calpestio strenuo che sfianca la debole vegetazione e lascia terra battuta ovunque.
Appurato che non fossimo membri di tale schiera, fummo accolti con un calore che mi sarei aspettato soltanto in qualche paesino ridente dell’Italia meridionale. Quest’uomo, assieme alla sorella e alla madre anziana, erano per qualche giorno in quella casa, nella quale Lalli e i suoi fratelli avevano passato molto temo da bambini. La signora anziana era la sorella della loro nonna. Queste connessioni improbabili non turbano mai gli islandesi, che sono abituati a tenere traccia delle parentele lungo il tempo e attraverso lo spazio.
La casetta era coperta di lamiere grigie dal vago tono azzurrino. Era circondata da un giardinetto di erba curata, con qualche strenuo tulipano. Oltre il recinto, campi di foraggio fino ai piedi dei pendii, dopodiché le montagne si gettavano bruscamente verso il cielo terso. Addi scambiò qualche parola con i proprietari della casetta, suoi parenti alla non-troppo-lontana, i quali ci invitarono molto giovialmente all’interno per un caffè. La prima parte della casa consisteva in un anticamera che sembrava quasi un aggiunta al corpo dell’edificio, e serviva a togliersi le scarpe fangose e i vestiti fradici che normalmente accompagnano i visitatori e gli ospiti nelle campagne. Subito dopo, il pavimento in pietra lasciava spazio a uno di legno, e un piccolo corridoio conduceva attraverso un paio di piccole stanze fino ad una graziosissima cucina, tutta in legno bianco, con una grande finestra che dava verso il mare. Sulla stufa un bollitore di metallo grigio dall’aria antica. Su una mensola a di legno in un angolo, una radio, anch’essa non all’ultimo grido, mandava le note di quelli che sembravano inni protestanti cantati da un coro professionista, inframezzati da qualche perorazione in cui potevo chiaramente distinguere la parola Jesús.
Mentre mi sforzavo strenuamente di seguire la conversazione, nel caso qualcuno per cortesia mi avesse chiesto qualcosa, osservavo la tovaglietta, decorata con disegni di fragole selvatiche che sembravano usciti da un libro di botanica. Mi fu servito subito del caffè. In Islanda si beve tanto caffè. Sempre. Ci si annaffia ogni dispiacere, e ci si condisce ogni gioia. Mentre sentivo quei parenti scambiarsi pettegolezzi, guardavo fuori dalla finestra, dalla quale potevo vedere i campi d’erba, il nero fumoso del sabbione, e il bianco del ghiacciaio che si tuffava nel blu dell’oceano. Mi immaginai come doveva essere trascorrere i giorni di tempesta invernali da quelle parti, ma chissà! Forse il fischiare del vento attorno alla casa e il tremare dei vetri è il giusto modo per ricordare come tutto, là fuori, è vivo e respira.
Finita la pausa caffè, ci incamminammo presso i pendii. Stavo per essere iniziato a qualcosa a cui gli stranieri raramente hanno accesso. Ci stavamo per addentrare nelle terre selvagge, dove non esistono sentieri o cartelli. Dove solo chi è cresciuto in groppa ad un cavallo e ha trascorso anni a rincorrere le proprie pecore tra i dirupi e le brughiere sugli altipiani sa orientarsi. E fu davvero una fatica.
La salita era ripida e il terreno irregolare. Cosparso di quei dannati ciuffi d’erba che si innalzano come gibbi dal suolo, minacciando di spezzarti le caviglie a ogni passo. Ad un tratto, la salita si interruppe bruscamente per lasciar spazio a un terrazzamento che non era possibile vedere dal fondovalle. Qui un terreno paludoso fatto di pozzanghere, rigagnoli e melma si estendeva per qualche decina di metri, prima che la salita riprendesse verso la cima. Io seguivo Addi, fermandomi ogni tanto per fare delle foto al paesaggio. Piano piano mi resi conto che quella che sembrava la cima di una piramide non era altro che una sporgenza la quale nascondeva un interminabile crinale roccioso da ambo i lati, i quali si riunivano in essa come i cateti di un triangolo che delimitava un vasto altopiano ricoperto di brughiere.
Prima della cima,il crinale diventava verticale, e per proseguire era necessario trovare un passo. Io – testardo – mi diressi verso il primo che vidi. Stupidamente. Si rivelò essere davvero pericoloso, anche se non meno impegnativo di quello da cui salirono Addi e le sue sorelle. Il mio si trovava sulla sommità di un crepaccio che tagliava la pendenza della montagna, e che raggiunsi camminando sul fianco ripido presso il suo orlo, fino a un piccolo terrazzamento di pochi metri quadri che lo sovrastava. Qui una parete di circa tre metri mi separava dal passo vero e proprio. Se fossi scivolato dalla parete e finito in malo modo sul terrazzamento avrei rischiato di scivolare fin nel precipizio.
Fatto il primo passo, mi accorsi che la parete era umida e sdrucciolevole. Dovevo fare attenzione a non posizionare le mani troppo in alto oltre le mie spalle, per evitare di perdere la forza dei muscoli, ma non c’erano appigli vicini, ed ero già a più di un metro da terra. Se fossi caduto mi sarei seriamente fatto male, e sarei parso un idiota, per non aver seguito Addi. Cercai di non farmi prendere dal panico. Poggiavo su una zolla di terra sporgente con un piede, mentre l’altro cercava disperatamente un punto solido per potermi sollevare oltre, e le mani erano strette attorno a rocce che parevano alquanto precarie. Mi feci forza, e con un pizzico di disperazione riuscii a spingermi fin oltre quel muro di roccia, atterrando a pancia in giù sul terrazzino naturale sovrastante, trascinando rapidamente le gambe per allontanarmi dal baratro. Il passo era estremamente angusto e sdrucciolevole. Le pareti ai lati sembravano volersi chiudere sulla mia testa, ma finalmente sbucai sul brullo altopiano. Gli altri non erano ancora riusciti a salire. Mi sentii subito bene. Non c’era vento e la vista su quell’angolo di mondo era una delle più commoventi su cui avessi mai posato lo sguardo.
Faceva caldo. Si sudava parecchio. Gli altri arrivarono strisciando a fatica attraverso un passo un po’ più in là. Addi era un esperto di quelle zone, e voleva metterci a parte di un tesoro nascosto tra le falde di quei crinali rocciosi. Prendemmo ad attraversare gli spogli altipiani, tra macchie di ghiaccio, torrenti, macchie di sabbia fradicia e qualche raro uccello. Ci fermammo a bere da un torrente che si infiltrava attraverso una piccola calotta di neve compatta, e proseguimmo presso un piccolo avvallamento in cui un’altro torrente rallentava il suo corso, stendendosi in una pozza di acqua chiarissima e fredda come l’inverno.
Qui, senza nemmeno pensarci troppo, mi tolsi i vestiti e mi tuffai. Il gelo mi catturò i piedi e le mani, con un dolore sordo, che si tramutò però in un piacevole tepore una volta uscito, dove stetti ad asciugarmi al sole.
La camminata proseguì verso un ripido crinale, dal quale costeggiammo un profondo canyon del quale non si intravedeva il fondo. Da qui giungemmo alla parete dell’altopiano opposta a quella per la quale eravamo venuti. Questa dava su una zona selvaggia e disabitata, dalla quale si intravedevano diversi torrenti precipitarsi dai dirupi formando piccole cascate. Nella ripidissima discesa, trovammo la carcassa di una pecora, Addi mi disse che era stata probabilmente mangiata dalle volpi, prima dei quali era rimasta a vagabondare per uno o due anni, a giudicare dalla lunghezza della lana. Tutto il panorama circostante era quieto e solenne. Non c’era anima viva e non si sentiva il tramestio solerte della civiltà urbana.
La vera sorpresa fu però il momento in cui aggirammo una falda nella ripida parete rocciosa ai piedi dell’altopiano, e trovammo un largo crepaccio che si apriva dentro di essa, lasciando passare un’imponente cascata a più salti. Era un luogo immaginifico. Qui ci fermammo per mettere qualcosa sotto i denti, mentre io constatavo con immenso stupore che tutte le scenate che avevo sentito sul Sud dell’Islanda – ovvero che si trattava di una parte ormai invivibile a causa dell’eccessiva antropizzazione e presenza di turisti – erano soltanto delle scemenze. L’Islanda incontaminata, quella che ti fa sentire piccolo e indifeso in una natura pericolosa e sconfinata si trova anche qui. Non serve spingersi fino alla riserva naturale dei Lidi del Corno (Hornstrandir) nei fiordi occidentali per trovare quella sensazione primordiale.
Percorrendo la sfiancante via del ritorno lungo il fianco dei pendii, ripensavo alle riflessioni fatte in passato su questo Paese e sull’effetto che ha su di me. Non importa quanto tragici possano essere gli accidenti che affliggono la mia esistenza. Non importa quanto scoraggiato ed avvilito possa trovarmi. Se la vita mi mette alla prova, mi basta guardarmi intorno per ricordarmi quanto (almeno nel mio caso) valga la pena esserci. E posso solo essere grato di aver trovato un luogo come questo che ha il potere di ricaricarmi da ogni stanchezza spirituale in virtù di un semplice sguardo gettato verso un’orizzonte sconfinato.
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