I “papar”, i misteriosi eremiti gaelici della più antica storia islandese

Come promesso vi racconto del sito archeologico delle grotte di Hella. Devo giocoforza prenderla molto alla larga, perché vanno a toccare aspetti complessi della storia islandese.

La questione delle origini della storia islandese è estremamente complessa e si intreccia con la politica. Riassumendo davvero tanto, le fonti islandesi antiche (ma scritte a partire da più di 200 anni dal periodo in oggetto), narrano di una scoperta fortuita seguita, un paio d’anni dopo, da migrazione di nobili norvegesi o di origine norvegese ma residenti nelle isole britanniche, che avrebbero occupato l’isola a partire dall’870 d.C., occupandola interamente entro il 930, anni di fondazione dell’assemblea generale.

Questa versione è stata accettata come veritiera per secoli, e gli islandesi avevano creato una loro identità nazionali sul fatto di essere discredenti di nobili norvegesi in fuga dalla tirannia di un re norvegese. Questa immagine è stata molto sentita a lungo, così che le poche voci che hanno provato a suggerire dettagli diversi della storia sono spesso state poco ascoltate, per non intaccare il mito nazionale.

Tuttavia, l’archeologia islandese è coadiuvata dalla presenza di strati di cenere vulcanica dalle eruzioni del passato. Se si estrae una carota dal terreno si vedono tante linee orizzontali nere di spessore variabile, sono i depositi di cenere dalle eruzioni. Questi sono stati mappati, e sono pu ti di riferimento preziosi per datare gli strati archeologici: se i resti di una casa si trovano sopra alla cenere di un’edizione che sappiamo essere avvenuta nel 1360, quella casa non può essere precedente al 1360. Fortuna ha voluto che intorno agli anni dell’inizio della colonizzazione (871±2) ci sia stata appunto un’eruzione. Fino al 2018, nessuno scavo archeologico aveva restituito edifici al di sotto di questo strato, confermando dunque il resoconto medievale della migrazione iniziata intorno all’anno 870. Proprio nel 2018, però, è stato trovato un insediamento temporaneo nell’est, risalente a circa un secolo prima della colonizzazione. L’insediamento era una stazione di caccia norvegese (gli archeologi capiscono queste cose dalle tecniche di costruzione e dal tipo di strumenti che trovano). Questo ha portato a riscrivere la storia della colonizzazione come quella di un graduale processo per cui dei norvegesi venivano in estate a cacciare, per poi tornare in Norvegia (o nelle Føroyar, o in Scozia…), fino a che qualcuno ha deciso di stabilirsi permanentemente.

Il quadro della colonizzazione è però complicato da una breve nota nel compendio storico più antico mai composto in Islanda, la Íslendingabók di Ari il Saggio, composta nel primo 1100. Lui scrive:

“L’Islanda fu inizialmente colonizzata dalla Norvegia nei giorni di Haraldur il Bellachioma, figlio di Hálfdan il nero[…]. Vi si trovavano prima dei cristiani, che i norvegesi chiamano papar, ma se ne andarono perché non volevano restare qui con dei pagani, e lasciarono dietro di sé libri irlandesi, campane e bastoni pastorali, dal che si può ben dedurre che fossero irlandesi”.

Non sono mai state trovate prove archeologiche della presenza di questi monaci eremiti. Esistono però alcuni elementi indiretti che citerò succintamente per non dilungarmi troppo:

  • Esistono tre luoghi, tra est e sud, che contengono la radice pap- nei toponimi. Potrebbe derivare da papar, ma anche da altro. Sono Papey, Pap(b)ýli e Papós.
  • Abbiamo fonti islandesi che menzionano viaggi in oceano aperto su imbarcazioni di pelle da parte dei monaci, come la Navigatio Sancti Brendani. Essa è un bel minstrone di storia e fantasia, ma è tecnicamente possibile che dei monaci potessero giungere fin qui.
  • Ci sono intorno alle 200 grotte artificiali, nell’Islanda meridionale. Non è chiaro quando siano state create e non possono essere datate.
  • In molte di esse sono incise delle croci. Queste croci sono state studiate da un professore canadese che ha individuato alcune corrispondenze tra esse ed altre croci rinvenute nelle isole britanniche, in aree di lingua gaelica. Non si conosce la pratica di incidere croci sui muri in altre parti d’Islanda.
  • Lo scavo di grotte era conosciuto in Irlanda ma non in Norvegia.
  • La colossale produzione letteraria islandese non conosce eguali in Scandinavia continentale, eppure ha un parallelo in Irlanda.
  • Sappiamo dalla genetica che la componente gaelica nella popolazione islandese antica era abbastanza forte, anche se nei secoli è diminuita in favore di quella norvegese (probabilmente perché i norvegesi, essendo di classe più alta, avevano più successo riproduttivo, rispetto agli islandesi di origine irlandese che, magari, erano solo servi).
  • Esistono alcune parole islandesi di origine gaelica, ma sono davvero poco quelle dimostrate in modo scientifico (un recente libro che ha avuto successo in Islanda ne elenca a centinaia, ma si tratta quasi sempre di paraetimologie, ovvero di parole che si assomigliano per caso, ma che l’ignoranza delle leggi linguistiche ha portato l’autore a ritenere imparentate per via della loro somiglianza. Un processo simile a quello che porta tanti italiani a credere che “Federico” significo “ricco di fede”, perché suona così, mentre in realtà è l’evoluzione di sue radici germaniche che significano “potente (signore) pacifico”.
  • Molto racconti popolari nell’Islanda meridionale associano luoghi locali ai monaci. Questo non vuol dire nulla però, perché possono essere stati inventati dalla fantasia di qualche nonno due secoli o anche solo due generazioni fa.

Anche se qualcuno (anche studioso di fama) può ritenere questi indizi sufficienti, dal punto di vista scientifico, se la presenza di queste genti non è confermata dall’archeologia, essa risulta non confermata. Non è sufficiente l’autorità o la fama televisiva o mediatica di uno studioso per conferire attendibilità alle sue ipotesi, se non supportate da dati chiari.

Rútshellir, una delle grotte artificiali dell’Islanda meridionale, con all’interno alcune misteriose croci.

Nel caso della presenza dei monaci irlandesi, siamo davanti al problema dell’effettivo menzione della loro comparsa nelle fonti antiche, e di quanto peso queste abbiano sulla questione.

Dal momento che in Islanda sono state trovate alcune monete romane di valore quasi nullo (e dunque difficilmente parte di un “tesoro” privato di qualche signore scandinavo), qualcuno ha ipotizzato il passaggio di qualche cittadino romano, ma fonti scritte che lo indicano non ne esistono, ad eccezione di rare menzioni di una terra imprecisata detta Thule, nominata per la prima volta dall’esplorazione greco Pitea di Marsiglia. In questo caso, bisognerebbe cercare indizi ulteriori prima di esprimersi in un senso o in quell’altro.

Una croce incisa sulla parete di Rútshellir.

Ma veniamo alle nostre grotte artificiali: non si trovano se non in casi rarissimi, in altre parti d’Islanda, perché è nel sud che si trovano i principali vulcani e ghiacciai responsabilità della stratificazione di cenere e sabbia che porta alla formazione dell’arenaria.

Ægisíða è una proprietà accanto ad Hella, piccolo centro dell’Islanda meridionale sulla quale si trovano una manciata di grotte artificiali, la maggior parte delle quali piccole e con una sorta di rialzo del terreno che fa pensare a un giaciglio per dormire, come se fossero celle. Molte di queste hanno le pareti tappezzate di graffiti e iscrizioni.

La datazione delle grotte risulta problematica, se non impossibile, ma non manca chi vuole vedervi i segni della presenza dei monaci irlandesi nella metà del primo millennio.

A prescindere dalle controversie sulla datazione e interpretazione, si tratta di un sito archeologico protetto che vale assolutamente la pena visitare, e che non ha ancora restituito gran parte dei suoi segreti. Le menzioni scritte più antiche di queste grotte non sono più vecchie del 1700/1800, ed allora esse erano già date per inagibili, perché quando collassano gli ingressi artificiali, queste si riempiono rapidamente di sabbia e detriti.

Una di queste grotte è più grande delle altre e aveva diversi camini (fori di areazione), mentre sul pavimento pare ci fosse una sorta di focolare per cui il cibo veniva cotto scaldando delle pietre su cui veniva posto. Una tecnica comune in Irlanda ma non usata in Scandinavia.

La grotta più grande ha un soffitto troppo alto perché fosse un abitazione (soffitti alti significano peggiore gestione del calore), presenta inoltre un rialzo sul fondo, che qualcuno ide tifica come altare, e un andito in fondo ad esso dove è incisa, nel mezzo, una croce. All’ingresso si trovano due nicchie, sopra alle quali è posto un foro, presumibilmente per delle torce o candele, dove avrebbero potuto porre delle icone sacre (queste sono tutte interpretazioni molto ipotetiche e senza alcuna conferma archeologica).

Qualcuno ha voluto immaginarsela come tempio pagano, ma questa è un’evidente sciocchezza perché ormai sappiamo dall’archeologia che non esistevano veri e propri templi nel mondo islandese precristiano. I signori locali facevano anche da sacerdoti e ospitavano le cerimonie nelle loro dimore. Utilizzo questo come aggancio per parlare di una delle numerosissime iscrizioni che coprono le pareti delle grotte di Hella, un’iscrizione runica.

La mia opinione è che si tratti di un falso novecentesco. L‘iscrizione recita “Salka”, nome proprio femminile, ma utilizza delle rune che non è possibile siano state usate in Islanda anticamente:

ᛋᚨᛚᚴᚨ

Queste sono le rune della serie antica, caduta in disuso già un secolo prima della colonizzazione dell’Islanda nel IX secolo.

Se fosse stata scritta in rune islandesi, sarebbe stata così:

ᛍᚿᛚᚴᚿ

Il fatto che abbia utilizzato la serie antica continentale, assurta agli onori dell’estetica nordica della cultura pop tra otto- e novecento, porta a concludere con ragionevole sicurezza che si tratti di un falso moderno.

Oltretutto, le rune in Islanda sono (per quanto ne sappiamo) state usate pochissimo. Si trovano su alcuni oggetti del periodo più antico e generalmente sono usate per scriverne il nome dei proprietari. Quando arriva l’alfabeto latino tornano di moda per le pietre tombali cristiane, ma sono usate con le convenzioni latine (per esempio si usano le doppie per indicare le consonanti lunghe, cosa che l’ortografia runica originale non prevede) e sono dunque una curiosità antiquaria, e non la continuazione di una tradizione antica.

Adesso sta diventando molto di moda, nella cultura pop islandese e nel turismo, parlare di “Celti”. Con un uso scorretto della parola assimilabile a quello che si fa del termine “vichinghi”, si chiamano “Celti” i Gaeli, perché “Celti” è un termine talmente carico di idee romanticizzate e favolistiche che fa impazzire e palpitare chiunque lo sente. Forse gli Islandese si stanno stancando dei vichinghi, per cui iniziano a tirare in ballo i “celti” (aspettatevi di vedere prodotti islandesi di lana con motivi a quadri, cornamuse e quant’altro…!). Riguardo ai papar, invece, menzionare i monaci irlandesi quasi che fossero ormai una presenza assodata nella storiografia ufficiale, ma è importante sapere che non è così, e che le domande senza risposta non fanno moltiplicarsi.

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