Nonostante si sottolinei sempre, nei riguardi dell’Islanda, l’importanza del rispetto della natura, manca un discorso profondo sul rispetto della cultura.
Oggi stavo passeggiando per il centro di Reykjavík, e ho assistito a una scena che mi ha causato molta tristezza, e dalla quale è scaturita una riflessione che ci tengo a condividere, particolarmente alla luce del seguito che ho maturato, il quale mi impone anche una certa responsabilità.
In particolare, ho visto un islandese ragionevolmente attempato dietro a un bancone. Vendeva cibo tipico, pesce essiccato, prodotti a base di pecora…e lo faceva indossando un elmo di plastica cornuto. Questo mi ha messo addosso un profondo dispiacere, perché in quel gesto apparentemente innocuo (sicuramente motivato soltanto dal marketing) si nascondono una serie di sviluppi tragici nella società e nella cultura islandesi causati dal turismo di massa incontrollato, che risultano nello svilimento della cultura islandese agli occhi degli islandesi stessi.
Direte, cosa c’è di male nel mettersi un elmo vichingo? Ma il problema non è questo, il problema è che quello stesso islandese, fino a qualche anno fa, non avrebbe mai fatto una cosa del genere. “Vichingo”, in islandese, era una brutta parola: significava “pirata“, “delinquente“, “mascalzone“. Gli islandesi dei secoli passati si sono adoperati per comporre tomi con genealogie che provassero la loro discendenza da nobili norvegesi, proprio per mettere a tacere certe voci infamanti che li volevano discendenti di schiavi, pirati e malandrini. Per secoli gli islandesi si sono adoperati per proiettare un’immagine di sé come di popolazione civilizzata e dalla cultura talmente sofisticata da tenere testa a quella dei maggiori Paesi europei, nonostante la loro povertà. Ma ecco che basta un’ondata di turisti stracolmi di pregiudizi, con il cervello lavato da rappresentazioni cinematografiche storicamente false, perché gli islandesi si mettano a recitare la parte dei barbari che i loro antenati si sono adoperati a negare, a rivendicare “sangue vichingo” e a indossare elmi cornuti storicamente insensati che sono nati soltanto nel romanticismo ottocentesco ad opera di un costumista tedesco nel contesto delle opere di Wagner.
Quell’islandese, con il suo gesto, stava inconsapevolmente rinnegando la sua storia millenaria per impersonare una caricatura di plastica la quale (come se non bastasse!) è figlia soprattutto di un romanticismo degenere di stampo nazionalista e, nel peggiore dei casi, del suprematismo nordico. L’elmo cornuto, assieme a molti altri simboli mutuati dalla cultura medievale scandinava (vera o immaginata) sono ancora spesso adottati da individui che intendono segnalare la loro superiorità su altri gruppi sociali in virtù delle loro (reali o presunte) ascendenze nordiche.
A prescindere da questo, va anche considerato che sono mai stati gli islandesi a glorificare i “vichinghi”, o a chiamare con lo scorrettissimo termine “vichinghi” i popoli norreni: sono stati i tedeschi, gli inglesi e gli americani, e anche noi italiani non siamo da meno. Come abbiamo visto, gli islandesi hanno cercato per secoli di apparire come un popolo civile. Poi siamo arrivati noi e abbiamo immaginato un passato “vichingo” per l’Islanda che non è mai esistito, e siamo andati in Islanda con i nostri portafogli ad offrire incentivi economici a chiunque fosse disposto a prostituire se stesso e la propria cultura per venderci quella caricatura romantica dei barbari cornuti della quale ci siamo (a torto) innamorati. Quando l’Islanda ha timidamente tentato di presentarci la sua anima autentica, le abbiamo spesso voltato le spalle, chiudendoci nei nostri pregiudizi, campando scuse per i nostri comportamenti e rifiutandoci categoricamente di aprire la nostra mente.
L’Islanda è un paese di poeti, di scrittori, di artisti, di contadini, di pescatori e di scienziati. Uomini la cui storia resta spesso ignorata dai turisti che vengono qui per vedere uomini con ridicoli costumi da vichinghi e pulcinella di mare, uccelli senza un ruolo nella cultura di questo Paese, ma che siccome piacciono ai turisti, hanno invaso i negozi di tutta l’isola nella forma di cianfrusaglie prodotte in massa in Asia, e che hanno finito con il soffocare e distruggere l’artigianato locale. Noi italiani dovremmo capirlo bene: è successa la stessa cosa a Firenze, Venezia e altre città d’arte.
Non c’è bisogno che spieghi l’importanza di visitarne i musei per avvicinarsi alla cultura di un Paese, eppure qui in Islanda questo spesso non succede. I commenti del tenore di un “non ne vale la pena” si sentono e si leggono troppo spesso, quando si discute dei musei islandesi. Eppure è un atteggiamento così miope ignorare i musei di questo Paese, magari spinti dal pregiudizio per il quale essi non sarebbero all’altezza di quelli italiani in quanto non abbastanza “attempati” e ricchi di capolavori incontestati dell’arte universale. Immagino siamo tutti d’accordo che possiamo imparare lezioni (di vita) importanti da un professore universitario come da un contadino, e lo stesso vale per i musei grandi e quelli piccoli, per le mostre sfarzose e quelle più semplici: possono tutte lasciarci qualcosa di importante e di indimenticabile. I musei islandesi sono i custodi dell’anima culturale di questo Paese, e snobbarli sarebbe davvero irrispettoso: immaginatevi se i turisti venissero in Italia solo per vederne le bellezze naturali e lasciassero vuoti i nostri musei giudicandoli non abbastanza meritevoli per i loro gusti. Sapremmo che questi turisti non avrebbero idea del valore e della ricchezza della cultura italiana, semplicemente perché la snobberebbero, e vivremmo nel costante dispiacere di sapere che la nostra cultura verrà sempre ignorata e messa in ombra in favore di bellezze naturali che, seppur bellissime, non rendono giustizia alla nostra storia di popolo. Perderemmo rispetto per noi stessi, e ci metteremmo a fare le caricature degli italiani che i turisti si immaginano noi siamo. Come quegli islandesi che, per marketing, si travestono da vichinghi con elmi cornuti, ignari dell’umiliazione culturale che si stanno infliggendo da soli, prostituendosi alle aspettative dei turisti.
Troppo spesso l’Islanda viene trattata come un parco vacanze dove la popolazione e la sua cultura sono quasi un fastidio di sottofondo da schivare mentre si cerca di bearsi soltanto di panorami selvaggi. Troppi vengono qui cercando un’Islanda non vera, anzi pretendendola. E purtroppo anche gli islandesi si sono piegati alle forze del mercato e hanno risposto alla domanda cambiando l’offerta. Questo non ha fatto altro che diffondere ancora di più le immagini falsate di questo Paese, in un circolo vizioso perverso. Questo atteggiamento è deleterio per l’Islanda, perché se i visitatori mostrano un totale disinteresse per la cultura, non c’è nessun incentivo per promuoverla e farla fiorire. Nonostante si sottolinei sempre, nei riguardi dell’Islanda, l’importanza del rispetto della natura, manca un discorso profondo sul rispetto della cultura. Se visitate l’Islanda è vostra responsabilità distinguere l’autenticità dalla plastica e incentivare la prima rispetto alla seconda. Questo richiede disfarsi delle proprie idee preconcette su pulcinella di mare, aurore boreali e fotografie modificate, e immergersi nella cultura islandese lasciandosi sorprendere. Visitate i musei e le mostre in giro per l’Isola, e fatelo con l’atteggiamento giusto, non con l’idea di vedere se sono all’altezza dei musei vaticani o degli Uffizi. I Paesi non si dovrebbero confrontare in quel modo perché hanno storie diverse e premesse diverse. Trattare la cultura islandese con sufficienza perché non ha prodotto Leonardo o Michelangelo è come snobbare un bambino nato in un’area rurale senza opportunità artistiche perché non è in grado di suonare il pianoforte: chissà quante altre cose saprebbe insegnarci, il bambino di campagna, se solo ci mettessimo ad ascoltarlo.
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