Islanda: un’analisi onesta

L’Islanda è ormai diventata la Terra promessa. Il sogno non più segreto di torme di popoli svariati, c’è chi cerca un paradiso ecologico anti-capitalista, chi insegue il sogno di un mondo ancestrale ancorato alla cultura pagana e, più di recente, chi insegue illusoria di diventare ricchi lavorando una stagione in una fabbrica di pesce.

L’idea di “Islanda” ha dei contorni molto vaghi: si tratta di un’isola lontana e magica, affine alla Tir na Nog, l’isola dell’eterna giovinezza della mitologica irlandese. Si tratta di una terra così lontana che forse nemmeno esiste; eppure, forse proprio in virtù di ciò, si ritrova essere la destinataria finale delle proiezioni utopiche di una sterminata collettività di membri della società occidentale disillusi e frustrati.

Secondo il folclore popolare, in Islanda i banchieri fraudolenti vanno in galera, i politici corrotti si dimettono, le gerarchie sociali non esistono, la libertà e l’espressione personali sono dogmi, l’aria è pulita, e la natura incontaminata dà ancora spazio all’immaginazione: è difficile immaginarsi elfi e fantasmi tra le autostrade e i capannoni industriali della pianura padana, ma tra i remoti ghiacciai e nei profondi fiordi c’è ancora spazio per credere che la vita possa essere un filo più magica di quanto non appaia.

La difficoltà della vita quotidiana, le amarezze e i dispiaceri, ci portano al bisogno di aggrapparci a illusorie immagini di una vita migliore, abbiamo bisogno di credere che esista, da qualche parte in questo vasto mondo, un Paese felice dove, volendo, potremmo anche trasferirci. Così iniziamo a sognare una terra fatta di ghiaccio e lava, ma anche di campi dal verde brillante, casette colorate e confortevoli maglioni di lana fatti a mano.

L’immagine popolare dell’Islanda, quella fatta di pace e armonia, benessere e ricchezza, aurore boreali e pulcinella di mare, è costruita sullo zelante lavoro (diciamolo: a volte davvero menzognero) dei media internazionali, i quali trovano assai profittevole vendere sogni ad un pubblico che ne ha avuto abbastanza dei fatti reali e del loro grigiore. Tutto ciò è davvero triste, se si pensa che si fa leva sulle debolezze e la frustrazione delle persone per marketing.

Questa mitizzazione non ha nemmeno giovato ai residenti, che si trovano costantemente sommersi di domande provenienti da persone disperate o esaltate che vogliono trasferirsi in Islanda appena dopo aver letto alcuni articoli trasognati, dove gli islandesi vengono dipinti come il popolo più pacifico, progredito e felice del mondo. Il guaio è che il grosso degli articoli sull’Islanda sono scritti da gente che è qui di passaggio, e raramente si legge qualcosa dal pugno di qualcuno che ci ha vissuto, oppure da gente che ha interessi economici nell’incoraggiare le persone a venire qui e spendere i propri soldi.

Vorrei contribuire a equilibrare la situazione mettendo in luce qualche punto scomodo, premettendo sempre che io adoro vivere qui e lo preferisco allo stare in Italia per tanti motivi.

Personalmente, trovo che i punti forti di questo Paese siano molti e non trascurabili: la relativa snellezza burocratica (dopo aver aperto il conto in banca, lavoro di dieci minuti contro la mattinata che mi ci è voluta in Italia, sono uscito con due fogli contro i dodici plichi con cui uscii dalla mia banca italiana, l’acquisto di un’auto ha richiesto un quarto d’ora); la pervasività delle connessioni internet, quando in Italia o Spagna ci sono tutti quegli insopportabili passaggi di login e registrazione; la sicurezza, per cui se dimentichi o perdi il protafogli lo ritrovi – pieno – e lasciare le chiavi nella toppa non è una disgrazia; l’informalità per cui se devi parlare a un superiore non devi fissare un appuntamento mesi prima e cospargerti la cenere sul capo con tanti salamelecchi per paura di offendere i ledere la sua maestà; la flessibilità per cui se hai dimenticato una virgola in un documento non devi fare tutto da capo perché la gente ha la testa quadrata, assieme al fatto che le regole non sono ottusamente seguite alla lettera; poi c’è l’estrema alfabetizzazione digitale, perché gli anziani islandesi usano mezzi digitali molto più dei nostri, ma non perché siano più intelligenti quanto perché in Italia abbiamo una diffidenza reazionaria verso le nuove tecnologie, e quella del cervello invecchiato è una scusa bella e buona: mia nonna che si ostinava a lavare a mano pur avendo la lavatrice non è che mancasse dell’intelligenza per girare due manopole, è che si era intestardita sul continuare a fare ciò che aveva sempre fatto. In Islanda, gli anziani che attaccano risse all’ufficio postale, frustrati nel vedere giovani che saltano la coda perché hanno prenotato con la app, non li vedrete mai, perché le app le usano anche gli anziani. Durante i vaccini per il COVID, ho visto file di anziani con i loro smartphone mostrare il codice QR ricevuto dal ministero della salute all’ingresso del palazzetto dove si svolgevano le vaccinazioni; poi è innegabile che in una società piccola come quella islandese ci si senta più presenti, o meglio, si sente che la propria esistenza faccia più la differenza di quanto non farebbe in una colossale e anonima megalopoli popolata da api operaie. Qui anche una sola persona può fare la differenza.

Questi sono lati che io trovo apprezzabilissimi nella società islandese ma, da straniero, trovo anche punti che a mio avviso potrebbero essere migliorati, o che comunque potrebbero costituire un problema per chi viene a vivere a qui.

Quando leggo articoli di giornali stranieri sull’Italia vedo dei ritratti più bilanciati, dove vengono descritti i pregi e i problemi (disoccupazione giovanile, corruzione etc.), e non trovo difficoltà ad ammettere che esistano problemi gravi che rendono spesso la vita fastidiosa. Quando si legge dell’Islanda, di norma, i problemi vengono sempre aggirati o edulcorati, quasi che fosse tabù ammettere che anche questo Paese abbia dei problemi. Gli islandesi stessi notano a volte, e con frustrazione, che i giornalisti stranieri spesso esagerano nel dipingere la perfezione di questo Paese o aggirano i punti problematici perché quello che vogliono è una conferma all’idea utopica che si sono fatti di questa nazione.

Mai si sognano, i media internazionali, di parlare dei numerosi episodi scandalosi che toccano la politica islandese, la più corrotta tra i Paesi nordici, e coinvolta nei traffici di grandi aziende. Il caso più grave degli ultimi anni è stato quello della grossa ditta ittica internazionale Samherji, beccata grazie a WikiLeaks a corrompere il governo della Namibia per farsi assegnare la gestione delle risorse ittiche del Paese. La Namibia è una nazione alla quale l’Islanda fornisce degli aiuti, cosa che ha reso lo scandalo ancora più imbarazzante.

Nel 2016, un primo ministro è stato costretto a dimettersi quando un giornalista locale, assieme a un collega svedese, hanno organizzato un’intervista trappola, facendogli domande generali sulle politiche islandesi per la lotta all’evasione fiscale, incoraggiandolo a dire cose come “in Islanda diamo grande importanza al fatto che ognuno debba contribuire al benessere società, che è vista come un grande progetto collettivo”. Poi gli chiesero cosa pensasse della gente che nascondeva i suoi conti dietro società off-shore e paradisi fiscali e lui rispose che “l’evasione fiscale è presa molto seriamente, perché quando qualcuno imbroglia sta danneggiando la collettività”, allora gli chiesero se lui stesso avesse mai usato società off-shore, e lì il suo inglese iniziò a peggiorare, lui si agitò, sostenne che fosse una domanda strana che suonasse quasi come un accusa, ma poi si ricompose e negò, sostenendo che i suoi guadagni fossero tutti regolarmente dichiarati. E qui il giornalista svedese sganciò la bomba: “Signor Primo ministro cosa sa dirmi della compagnia chiamata Wintris?”, allora la situazione precipitò: il primo ministro iniziò a balbettare, cercò di svicolare facendo il finto tonto, poi si alzò, fece avanti e indietro arrampicandosi sugli specchi e arrabbiandosi, e infine scappò dalla stanza. L’intervista fu trasmessa in TV (ricordo benissimo quella sera, ero a cena da amici islandesi ed eravamo tutti alla TV a seguire). Ricordo il profondo scandalo e la vergogna che attraversò il Paese. Ancor più perché lui rifiutò di dare le dimissioni, e fu allora che 10.000 islandesi si riunirono e lanciarono banane e skyr contro il parlamento. Lui poi rassegnò le dimissioni, ma più tardi si fece crescere la barba e rientro in politica a capo di un partito centrista, e ancora oggi è in parlamento. Tutto è perdonato. (Anche gli islandesi possono avere la memoria corta come gli italiani!)

Ci sono anche diversi scandali che colpiscono l’ufficio immigrazione, la famigerata Útlendingastofnun, organi fondato dai nazisti e tutt’ora autorità suprema sulla vita e sulla morte degli emigrati ed expat non-UE. Un adolescente rifugiato trascinato di peso fuori da una chiesa dalla polizia, una famiglia albanese sbattuta fuori dal paese in piena notte con il figlio piccolo malato,  o una famiglia originaria del Togo con due figli piccoli nati in Islanda che viene trascinata fuori di casa alle 4 del mattino dalla polizia tra le proteste inascoltate di vicini e amici.

Sono notizie che la gente non vuole sentire.

E che dire dell’immagine eco-friendly tanto popolare all’estero? In Islanda non si è riciclato fino al 2009, e ancora oggi non esiste un impianto di riciclaggio locale, così che i rifiuti sono spediti all’estero. Soltanto nel 2021, il comune di Reykjavík ha iniziato a pensare di attrezzarsi per la raccolta differenziata di plastica e vetro nelle case (ad oggi si separa solo la carta!).

Relativamente facile mantenere una certa pulizia quando si è una popolazione pari a quella della città di Bari in un Paese grande come l’Italia settentrionale…ma con l’aumento del turismo, le carenze gestionali per ciò che concerne i rifiuti iniziano a pesare. Qualcosa si sta muovendo, ma abbastanza a rilento.

La natura incontaminata, invece, è vista da molti come una risorsa da sfruttare, anche qui la politica e le aziende cercano di trovare modi per cementificare il più possibile, e non sempre i paletti legali funzionano, perché la corruzione (come già detto) è diffusa.

La nuova costituzione, alla quale si era lavorato già dagli anni 2000, con iniziative popolari, è stata costantemente ignorata dalla politica, e quando un muro del centro è stato dipinto da ignoti con un graffito «Che fine ha fatto la nuova costituzione?», lo zelo delle autorità nel riverniciarlo di bianco il giorno dopo ha lasciato tutti di stucco, visto che quel muro era imbrattato da anni e a nessuno pareva importasse molto.

I banchieri del crash, o meglio, i due pescati tra i mille perché colti proprio con le mani nel sacco ma non più colpevoli di tanti altri, sono finiti in una fattoria vicino al famoso colle di Kirkjufell, e sono usciti dopo aver scontato neanche un quarto della loro pena.

Il mondo del lavoro è spesso sconquassato da scandali che riguardano lo sfruttamento dei lavoratori stranieri, e sia che siate stranieri o islandesi, è sempre meglio controllare la busta paga perché vengono continuamente commessi errori e potrebbe essere che non vi sia pagato il dovuto (ma questo è un problema endemico).

Anche l’architettura, a mio personalissimo e ignorantissimo avviso, ne esce malconcia: le casette colorate tanto popolari che accompagnano gli articoli delle riviste di turismo e culturali, fatte in lego e in lamiera sono una rarità, quelle in torba sono più uniche che rare, e Reykjavík in molti angoli assomiglia di più al sobborgo di una qualsiasi città nordamericana o europea, visto che gli edifici storici sono (seppur bellissimi!) piccoli e spesso nascosti all’ombra di mostri in cemento, acciaio e vetro dalla forma perennemente a scatoletta di sardine. Il campus universitario dal cielo sembra il teatro di un incidente tra camion che trasportavano scatolame, e forse la mancanza di secoli/millenni di esperienza nell’architettura, unita al desiderio spasmodico di essere supermoderni pur di primeggiare in qualcosa, fanno sì che molti edifici abbiano gravi problemi di progettazione, che siano vittime di infiltrazioni e pongano seri problemi logistici a chi poi deve lavorarci giornalmente. Purtroppo, a differenza di quello che si crede, la gente non vive nelle casette da folletti calde e asciutte e passa il tempo a dondolarsi lavorando a maglia al lume di candela mentre i piccoli giocano ai piedi dell’albero di Natale. Le favole son favole e l’Islanda è un luogo reale.

L’essersi arricchiti così rapidamente e il venire da un passato fatto di povertà, fame e miseria, ha fatto sì che diversi islandesi non esibiscano la cura attenta nelle interazioni sociali tipica di altri paesi più anticamente urbanizzati. Sono una società arricchita, ma per tanti versi ancora rurale, il che significa che, sì, hanno una cordiale e amichevole spontaneità quasi campagnola che può essere davvero ben accetta per chi viene da società molto formali come quella italiana, ma mancano spesso una certa sofisticazione delle maniere tipica di altri Paesi europei che di primo acchito è spesso interpretata come maleducazione. Non si possono gestire uffici pubblici e istituzioni culturali nello stesso modo in cui si gestisce una fattoria, a questo è purtroppo ciò che spesso succede, e se le fattorie vanno gestite con grande flessibilità a causa dei capricci della natura, gli uffici pubblici e le istituzioni culturali sono gestite secondo i capricci dei singoli, spesso con una leggerezza che rasenta il ridicolo. Se ordinate nei bar, verrete sorpresi da come i camerieri se la prendono spesso comoda, lasciandovi impalati al banco e ignorandovi mentre vanno avanti a chiacchierare. Non è affatto maleducazione, si tratta di un senso del tempo e dell’interazione sociale diverso dal nostro, ma può essere irritante per chi viene da fuori.

Quanto a organizzazione, gli islandesi non programmano: impazziscono all’ultimo momento. Spesso si presentano agli appuntamenti con colossali ritardi, e hanno un senso del tempo più affine a quello dei messicani che a quello degli italiani (per lo meno quelli del nord). Se invitate qualcuno a cena per le 7:00, attenzione che a 7:40 potrebbero non essere ancora arrivati! Una volta che ci si abitua non costituisce più un problema, si impara ad essere rilassati, ma per alcuni individui un po’ rigidi, adattarsi a ciò potrebbe essere impossibile.

Non è raro, nemmeno tra individui di una certa posizione sociale, l’eccedere con l’alcol in occasioni perfino di ricevimenti più o meno informali (ho assistito a parecchie scene in cui professori universitari perdevano il controllo al terzo bicchiere di rosso), e questo può essere piacevole perché rilassa l’atmosfera e scioglie la formalità imbarazzante che connota interazioni sociali di tipo professionale, ma può anche scioccare gente che viene da culture dove il senso del decoro, il fare bella figura e il comportarsi in pubblico sono così importanti. (Prego di non interpretare questo paragrafo come prova che in Islanda ci sia un problema di alcolismo generalizzato: si consuma meno alcol pro-capite che in Italia!)

L’assistenza sanitaria è in alcuni casi carente. Qui si paga un ticket anche sulla visita al medico di base e sul pronto soccorso, e se stai male assicurati di avere un paio di centoni in tasca altrimenti l’ambulanza non viene a prenderti! Hanno macchinari e strutture all’avanguardia, che in molti ospedali italiani si possono solo sognare, ma la cura dei pazienti può essere sbrigativa e finalizzata a tamponare il sintomo, piuttosto che alla cura della malattia.

Per ciò che riguarda l’aspetto umanitario, molti islandesi sostengono spesso con orgoglio che starebbero “facendo la loro parte”, riferendosi all’esigui numero rifugiati accolti nell’ultimo secolo. Questo da italiano lo trovo seccante: comodo lavarsi la coscienza accettando una manciata di rifugiati all’anno, ma vorrei provassero ad avere le loro spiagge punteggiate dai cadaveri di centinaia di disperati, e i centri di accoglienza che esplodono delle centinaia di migliaia di persone che giungono in Italia ogni anno. La stampa locale parla molto poco di queste cose perché alla fine è un problema che li tocca poco: l’essere così lontani dalla miseria e dalla guerra droga gli islandesi con un senso di prosperità e sicurezza fittizio.

Il punto qui è che, pur non mettendo in dubbio le doti di questo popolo, ci andrei cauto nell’attribuire il merito per il loro stile di vita alle loro doti anziché alle circostanze geo-politiche. L’eruzione catastrofica che ha sepolto Heimaey nelle Vestmannaeyjar negli anni ’70 non è stata un disastro umanitario solo perché il giorno prima i pescherecci non erano usciti in mare per via del maltempo ed erano dunque tutti pronti a essere impiegati per trasferire i cittadini sulla terraferma, non per la straordinaria efficienza geometrica dell’apparato statale.

La libertà sessuale che viene tanto sbandierata si accompagna a un’incidenza allarmante di malattie sessualmente trasmissibili e di gravidanze giovanili, che comportano tutta una serie di disagi non solo per le madri giovani e spesso impreparate o impossibilitate a ricevere aiuto dai genitori e addirittura dai nonni spesso ancora giovani e lavoranti, ma per la società nel suo complesso, viste le numerose ricadute che una gravidanza ha sulla vita di una ragazza.

Tutto questo non vuole essere un’invettiva contro un Paese che, a conti fatti, è prospero, pacifico, relativamente felice e pieno di opportunità, ma lo ritengo una puntualizzazione necessaria a fronte della frenesia che circonda l’idea di Islanda. Specialmente a fronte del fatto che il 90% dei resoconti estasiati sono scritti da persone che al massimo si fanno una settimana di vacanza una volta ogni tot anni e hanno solo il tempo di notare la calma e l’accoglienza delle strutture ricettive. Sono felice di vivere qui, non tornerei in Italia, che ritengo un Paese troppo ingessato e pedante per tanti versi, in cui non avrei mai le opportunità che ho qui, dove posso vivere in una capitale europea senza il senso soverchiante di trovarmi in un formicaio brulicante. Non è sempre facile ma qui ho trovato un equilibrio che apprezzo molto, e che mi permette di osservare con lucidità la realtà circostante. In questo modo posso rendermi conto di trovarmi in una realtà in cui personalmente posso vivere in modo soddisfacente, ma che è lo stesso una realtà imperfetta e colma di problemi, per cui potrebbe rivelarsi inadatta o dannosa per altri.

Mi auguro che più articoli scritti da residenti facciano la loro comparsa in rete e aiutino le persone a capire che non esiste IL Paese perfetto, che l’Islanda è un Paese come un altro, che se il Paradiso esiste, non è uguale per tutti, e se si trova a metà strada tra la Gran Bretagna e la Groenlandia, sta a ciascuno di noi deciderlo 🙂

8 risposte a “Islanda: un’analisi onesta”

  1. Grazie Roberto, articolo davvero molto interessante! Sono d’accordissimo sul fatto che la visione di Islanda è diversa da una persona che ci vive a una, come me, che ci passa due settimane in agosto. Anch’io, come la maggio parte dei turisti, guardavo all’Islanda come un’isola felice e perfetta!!

  2. Ciao Roberto, grazie per questo interessante articolo da insider. La loro lentezza emerge anche agli occhi di un turista: andavano nel panico quando un ristorante era al completo, e aveva ben 4 tavoli su 5 occupati 😀 Anche io faccio parte di quella schiera di persone che vede l’Islanda come un paradiso, ma lo è per il mio concetto di viaggio; direi lo stesso del Giappone: è davvero impeccabile per un visitatore, ma è sicuramente un Paese molto controverso in cui vivere. Sul mio blog invece mi sono impegnata a fare un’apologia della Germania, che al contrario viene vista come una nazione noiosa e senz’anima, ma che io ho trovato davvero fantastica nella vita di tutti i giorni.
    Buona serata, e tanta sana invidia per te, nonostante tutto 😉

  3. Ciao Roberto, bell’articolo, veramente interessante, anche io faccio parte di quelle persone che vedono nel nord Europa il posto ideale per vivere ma so bene che un conto è amministrare uno stato con 60 milioni di persone invece di uno stato con 7 milioni. Buona vita

  4. Abito a Húsavík da due anni e mezzo, arrivatoci dopo sogni e diversi viaggi con una visione quasi paradisiaca dell’Islanda e del suo popolo.

    Da mesi, però, mi chiedevo quando avrei finalmente letto un articolo realistico su questo paese, un articolo scritto da parte di qualche italiano. In effetti, da qualche anno, non se ne può più di questa versione ovattata ed edulcorata di qualsiasi aspetto che riguardi l’Islanda passataci da ogni media. L’articolo è finalmente arrivato. Condivido quasi tutto…il quasi è dato dal fatto che vivendo in una cittadina come Húsavík, la quale, pur essendo il principale centro del nord-est, è comunque un paesino, vedo una realtà “campagnola” – aggettivo propriamente utilizzato nell’articolo – più coerente con se stessa. I contadini (o pescatori) arricchiti sono pochi e quei pochi non cercano di essere qualcosa che non sono (per lo meno finché stanno a Húsavík). E poi la natura circostante è qualcosa di unico. Il vivere in una realtà del genere permette forse di apprezzare meglio le qualità dell’Islanda, il paesaggio incredibile, la cordialità ed il calore dei nativi. Al tempo stesso, però, lo stile di vita può diventare un po’ alienante (il cinema più vicino ad esempio, si trova a 95km) e, soprattutto, il livello medio richiesto per fare qualcosa, qualsiasi cosa, è fastidiosamente basso (ancora più basso di quanto non lo sia nella capitale). È affascinante ma falso il concetto che tutti possano fare gli artisti, i musicisti, gli esperti di marketing, i manager di impresa. Chiunque, ma non tutti.

    In ogni caso, Roberto, se dovessi passare a Húsavík vienimi a trovare all’Exploration Museum!

    1. Grazie! Parli dell’Húsavík nel nord est? Ci sono stato un’estate in una giornata di sole bellissimo. Centro davvero grazioso. Amerei tornarci quindi passerò senz’altro a salutare!

  5. Avatar Alessandro Di Lellis
    Alessandro Di Lellis

    Interessante e senza peli sulla lingua. L’Islanda che ho visto io nel 1982 (turista, 17 giorni, estate) probabilmente era molto diversa da quella attuale.

    1. Penso che tutto il mio blog sia un commento a questo articolo stracolmo di idiozie. Ho poca pazienza per gli italiani che vengono “alla spero in Dio” in Islanda e si aspettano il tappeto rosso, ma quando non lo trovano si mettono a insultare il Paese. L’Islanda merita molto di più!

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