Vita in Islanda: una pagina di diario.

La vita a Reykjavík non è troppo diversa dalla vita in qualsiasi altra capitale europea. Ci sono ristoranti di ogni tipo, ci sono concerti, eventi mondani, culturali, mostre, visite di personalità internazionali, club, società sportive e negozi carichi delle ultime novità di tendenza nel mondo hipster. Risulta difficile rimanere a corto di cose da fare ma, nonostante questo, non si ha mai quel senso soverchiante e soffocante che si prova spesso nelle altre capitali europee, quasi ci si trovasse nel mezzo di un formicaio brulicante. È la cosa che amo di più di questa città. Bastano due passi per raggiungere la riva del mare a nord o sud del centro, e volgere lo sguardo verso i monti innevati del Hvalfjörður, o le formazioni vulcaniche a sud, lungo la penisola di Reykjanes. A est si innalza la barriera degli altipiani, con la brughiera di Hellisheiði e la catena dei Bláfjöll sulla strada per Vík, nel sereno e quieto sud, dove si stagliano picchi impervi a due passi dalle spiagge nere. Nelle giornate limpide, verso nord-ovest, specialmente da qualche punto di osservazione sopraelevato, si vedono le cime appuntite come i denti di una sega dei rilievi che si dispiegano lungo la penisola di Snæfellsnes, e nella punta più occidentale di questa penisola, si erge, in tutta la sua austera imponenza, il cono vulcanico del Monte Nevoso, Snæfell, in cui Otto Lidenbrock, il protagonista del famoso romanzo di Jules Verne, si sarebbe calato per raggiungere il centro della Terra.

Immaginate un venerdì mattina in pieno inverno, magari nella seconda metà di gennaio. Ci si alza la mattina, non troppo presto se il proprio lavoro lo permette, ed è comunque buio pesto. Le strade non sono cariche di gente che si affretta per raggiungere il posto di lavoro. Ognuno lo fa secondo il suo ritmo, prendendosi il proprio tempo. Un po’ come per tutto, del resto, dal servire il caffè al bar, al consegnare dei documenti più o meno urgenti. Il ritmo della vita in Islanda non è un ritmo laborioso. A loro piace sentirsi luterani nello spirito – nonostante siano quasi tutti atei più o meno convinti-eppure non sembrano aver ereditato, almeno nella pratica, quell’etica del lavoro che spinge all’operosità perpetua tipica del mondo protestante, che portata all’estremo crea così tanta miseria nella società americana.

Negli Stati Uniti nasceremmo e vivremmo per lavorare. Il lavoro in Islanda è una necessità da assolvere senza troppi danni. Così. Più o meno. Abbiamo una sola vita da vivere, e rischiamo ogni secondo di vedercela strappare da una natura impietosa e amorale. Per questo se vi aspettate una società regolata al millesimo, dove tutto procede secondo rigorosi metodi oliati dalla volenterosa operosità di cittadini-api operaie, rimarrete delusi: l’Islanda è un Paese per chi sa improvvisare.

Ogni mattina, specialmente nel buio dell’inverno, è obbligatorio prendere il lýsi, bella forma di un cucchiaio ben pieno, o in sei piccole capsule, se avete il palato delicato: si tratta dell’olio di fegato di merluzzo, fonte di preziosa vitamina D, la cui carenza dovuta alla mancanza di luce, scatena stati di depressione. L’oscurità è forte. Rende il compito di alzarsi dal letto molto difficile da assolvere. Se il cielo è coperto, oltre a un vago chiarore intorno a mezzogiorno e nel primo pomeriggio, le uniche luci visibili sono quelle dei lampioni, e del bagliore del ghiaccio che incrosta i marciapiedi e gli scheletri delle piante. Nelle giornate più limpide, il cielo inizia a schiarirsi intorno alle dieci, dieci e mezza, e la luce raggiunge il suo massimo dopo mezzogiorno. Si tratta di una luce fioca, fredda, da alba invernale. Alle quattro del pomeriggio, il sole è già tramontato, dopo aver descritto un arco brevissimo sull’orizzonte a sud.

Uscire all’aperto, durante l’inverno, non è sempre un’opzione. Gli inverni islandesi, particolarmente nella capitale, sono sempre imprevedibili, e possono andare da quelli più miti, con medie sopra allo zero, a situazioni che ricordano l’inferno dantesco, se ricordate vagamente il primo cerchio dove si trova “la bufera infernal che mai non resta”. Le tempeste rendono quasi impossibile l’uscire di casa. I venti sono così forti e gelidi che si rischia di venire spinti chissà dove. Succede di tanto in tanto che qualcuno scompaia. Escono di casa, scende la neve, e quando il sole torna a brillare, fioco e non troppo convinto, il ghiaccio si è portato via tutto. Nei casi meno estremi, quando la vita non è a rischio, tocca spingersi nella tormenta, coperti di abiti e calzature impermeabili, e andare a scuola o al lavoro rassegnandosi di buona grazia.

Non tutti gli inverni hanno in serbo tempeste immaginifiche: uno dei modi più facili per identificare i turisti è notare quegli individui che vestono abiti da spedizione polare quando la temperatura è al di sopra dello zero e i locali sfoggiano eleganti cappotti di panno, pantaloni aderenti e scarpe distinte e aggraziate. I turisti si preparano al peggio, e spesso vengono sorpresi da temperature più alte di quelle che si sono lasciati alle spalle a Milano o Torino. Arrivano imbottiti con giubbotto rosso brillante che ricordano sacchi per la spazzatura.

Gli islandesi amano darsi un certo tono. Erano un popolo di contadini che per la maggior parte viveva in buche nel terreno fino all’altro ieri, mentre ora, grazie alla ricchezza assorbita dalla pesca e dal turismo, possono permettersi qualsiasi cosa, e amano dedicarsi a questa attività, tenendosi al passo con le ultimissime mode tecnologiche e stilistiche, con una devozione particolare per quegli aspetti che modernamente sono definiti hipster. L’uomo islandese è vagamente effemminato, nonostante la barba, che spesso è maniacalmente curata e rifinita, ama il pantalone in fustagno, le Dr. Martens e i panciotti. Il tipo rozzo e troglodita che colpisce l’immaginario dell’uomo medio americano con la passione per le armi è in via d’estinzione. Perfino i contadini meno urbanizzati e abituati a vivere in modo semplice e duro hanno una dolcezza e una semplicità che mal si concilia con l’idea di uomo di frontiera pratico, burbero, rude e virile.


Usciti dal lavoro facciamo una passeggiata verso il centro. Se ci si ferma al semaforo davanti al Museo Nazionale, alla propria destra, in fondo ad una pianura acquitrinosa popolata da uccelli di ogni tipo, si vede la collina di Perlan, con la sua luce rotante, magari un po’ velata dalla poggia. Attraversata la strada si percorre la via di Tjarnargata, con le sue case eleganti, e si scende verso il laghetto Tjörnin, che attraversiamo lungo il ponte guardando verso la Lækjargata, in fondo alla quale vediamo le pendici della catena montosa di Esja, striate dalla neve, e con banchi di nuvole basse e compatte intorno ai loro piedi. Con un giro non proprio intuitivo, percorso un breve tratto della Lækjargata, svoltiamo all’angolo dove si trova, dirimpetto al vecchio edificio del liceo, il pub Ölsmiðjan, un postaccio più sicuro e pulito di qualsiasi altro postaccio che abbiate mai visitato, e vediamo il retro della Cattedrale, a fianco alla quale sorge il piccolo edificio del Parlamento, sul lato sud della piazza di Austurvöllur, che attraversiamo in diagonale, tra i vasi di verze, l’unico fiore vagamente decorativo che può resistere agli sbalzi d’umore climatici di questa città. Superiamo un vicoletto per trovarci nella piazza di Ingólfstorg, dove sorgeva l’insediamento del primo colonizzatore norvegese in Islanda. Oggi dominata da un albergo orribile in acciaio e vetro. Non ci sono i ragazzi in skate, ma ci sono alcuni turisti confusi che formano capannelli fuori dai due chioschi degli hot dog. Attraversiamo anche questa piazza in diagonale e girato l’angolo nella Vesturgata, raggiungiamo Stofan, sulla sinistra, un locale su due livelli, in ua casa di legno verde marcio, col pavimento di assi.

Ci sono divani e poltrone, i ragazzi che servono sono amichevoli, ma da bravi islandesi si prendono il loro tempo. Al piano di sotto c’è un pianoforte scordato. Nessuno verrà a fermarti se ti metti a suonare. Se prendi un caffè, hai diritto a un refill gratis, come è d’uso qui. Fanno anche zuppe, pasti leggeri e torte. Si può giocare a scacchi, a Risiko!, ci si può rilassare leggendo, o si può lavorare e studiare. Io venivo con i compagni di corso a tradurre le versioni di antico nordico. Non manca il Wi-Fi, le luci soffuse e le prese per i laptop.Ci sono coperte di lana da tenere sulle gambe se si sente freddo, e la musica è di solito anni ‘20/30. Forse non è quello che il visitatore medio associa all’Islanda, ma se mi trovo all’estero e sento nominare la Terra del Ghiaccio, è a questo che va il mio pensiero. Spesso i viaggiatori snobbano Reykjavík per concentrarsi su quella che definiscono arrogantemente “la VERA Islanda”. I fiordi, i ghiacciai e compagnia bella. La mia Islanda è altro, è la collezione di manoscritti medievali infarciti di saghe, le poltrone d’epoca di Stofan, il profumo di cannella e la musica anni ’20.

La vita nella capitale islandese si snoda tra i concerti di band indie, le mostre fotografiche e gli eventi culturali. Ci sono i concerti classici a Harpa, il chai latte di Stofan mentre un ragazzo barbuto con i cappelli perfettamente pettinati all’indietro suona qualche sua canzone un po’ melensa, le serate pazze tra Húrra e Kiki…e poi c’è il contorno delle aurore verdognole che si gettano come drappi di raso lungo i cieli sconfinati che avvolgono monti, valli, ghiacciai e vulcani.

Tuttavia, è facile dimenticarsi di tutto questo quando si è immersi nella vita di tutti i giorni, ed è un attimo ritrovarsi dimentichi della natura circostante pronta ad assalire appena usciti dalla capitale. Quando il buio, il freddo e il ghiaccio iniziano ad avere la meglio sul tuo umore, e le circostanze fanno sì che tu ti senta solo come non mai ai confini del mondo, o le volte in cui spendi una fortuna in frutta che non vedi l’ora di addentare, ma scopri che è avariata, o dopo aver pagato dieci euro di tassa per un libro acquistato su Amazon, e nei giorni in cui hai avuto un problema al lavoro, o sei vessato da preoccupazioni economiche o sentimentali, quando il dottore ti chiede parcelle che ti fanno rimpiangere la sanità italiana, è facile ignorare quella che al visitatore appare come una bellezza che potrebbe curare qualsiasi ferita dell’anima e cadere nello sconforto che prima o poi ci coglie in quanto esseri umani. Ma non è inevitabile: con un piccolo sforzo di volontà, e uno sguardo ardito oltre la baia, si può per un attimo ricevere quella spinta che in un momento di sconforto può segnare la differenza tra la resa e il contrattacco.

La consapevolezza di essere qui, di avercela fatta a dispetto dei problemi, è uno dei regali che l’Islanda dispensa più generosamente: non si tratta della semplice soddisfazione personale che un giovane può provare in virtù del fatto di aver lasciato la casa dei genitori e aver raggiunto una certa qual indipendenza, – alla fine vivere qui non è per tutti e non è da tutti – si tratta di una forma particolare di esaltazione, che può assalire come un boato silenzioso, quando il cielo si apre per investirti con raggi di luce fredda, e la terra sotto di te sembra ribollire partecipe della tua felicità, è la gioia tumultuosa del poter dire “Sono proprio qui. Ora. Nonostante tutto”.

2 risposte a “Vita in Islanda: una pagina di diario.”

  1. Che dire, una descrizione perfetta e agrodolce di quello che davvero significa vivere a Reykjavik. Una città non per tutti, forse neanche per me. Eppure ora, nonostante tutto, sono proprio qui.

    Buona vita islandese
    Marco

  2. “Risulta difficile rimanere a corto di cose da fare ma, nonostante questo, non si ha mai quel senso soverchiante e soffocante che si prova spesso nelle altre capitali europee, quasi ci si trovasse nel mezzo di un formicaio brulicante.” È esattamente questo ciò che amo di più di Reykjavik!
    Un saluto da Roma, tanto bella quanto schiacciante.
    Valeria

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