Insuperabile Sud: l’anima dell’Islanda

Questo fine settimana è stato uno dei momenti di maggior catarsi dal mio primo atterraggio sul suolo islandese, ormai nel lontano 2013. Ho fatto una nuova esperienza veramente straordinaria, e per qualche ragione ho avuto come la sensazione di aver riscoperto un’Islanda che avevo sognato e cercato, ma poi dimenticato: sono stato ospite nella fattoria di proprietà della famiglia della mia ragazza, e ho finalmente avuto un assaggio della vita islandese fuori dalla capitale. Sono stato nel Sud-Est, che considero da sempre la mia parte preferita del Paese, e mi rammarico nel constatare come tante delle persone che visitano l’Islanda più di una volta spesso dicano che il Sud è turistico e gli intenditori prediligono i fiordi occidentali. Io adoro il sud perché il paesaggio stagliato tra monti aguzzi e pianure sterminate e punteggiate dal trotto dei cavalli, non si trova da nessun’altra parte, così come le lagune glaciali e le mastodontiche calotte di ghiaccio. Ho visitato i fiordi due volte, e seppur mi abbiano regalato sensazioni inenarrabili, il Sud, e il Sid-Est in particolare (Da Vík a Höfn) rimane la parte che più mi fa battere il cuore.

Prima di raccontare i dettagli dell’esperienza, vista l’importanza che attribuisco all’approfondimento della cultura islandese per quanti vogliano approcciarsi a questa nazione, citerò il passo iniziale dell’ultima parte del libro medievale delle colonizzazioni, Landnámabók, dove si parla degli insediamenti nell’est dell’Islanda (allora identificato come la zona da Langanes nell’estremo nord-est, fino a Sólheimasandur (dove oggi si trova il relitto dell’aereo americano).

Dal Libro Degli insediamenti (IV parte)

Þessir menn hafa land numit í Austfirðingafjórðungi, er nú munu upp talðir, ok ferr hvat af hendi norðan til fjórðungamóts frá Langanesi á Sólheimasand, ok er þat sögn manna, at þessi fjórðungr hafi fyrst albyggðr orðit.

Gli uomini di cui discuteremo hanno colonizzato il distretto est, che si estende dal confine con il quartiere nord a Langanes fino Sólheimasandur, e si dice che fu il primo distretto ad essere completamente colonizzato.

Dal Libro degli insediamenti (V parte)

1. kapituli.

Austfirðr byggðust fyrst á Íslandi, en á millim Hornafjarðar ok Reykjaness varð seinast albyggt. Þar réð veðr ok brim landtöku manna fyrir hafnleysis sakar ok öræfis. Sumir þeir, er fyrstir kómu út, byggðu næstir fjöllum ok merkðu at því landkostina, at kvikféit fýstist frá sjónum til fjallanna.

Traduzione:

Qui inizia la [storia della] colonizzazione della regione del Sud, che è la più rigogliosa di tutta l’Islanda, per via della terra stessa e dei Signori che vi sono insediati, sia istruiti che non.

Capitolo I

I fiordi orientali furono colonizzati per primi in Islanda, mentre lo spazio tra l’Hornafjörður e la penisola di Reykjanes fu l’ultimo ad essere completamente occupato. Il vento e la forza del mare ostacolarono l’approdo degli uomini, assieme all’assenza di porti e alla desolazione. Alcuni di quelli che approdarono per primi notarono, in merito alla qualità del terreno, che il bestiame tendeva ad allontanarsi dal mare verso le montagne.

In effetti gli insediamenti umani del Sud-Est tendono a trovarsi tutti in fila seguendo la linea delle montagne. La fattoria presso la quale ero diretto si trova poco dopo il paesino di Kirkjubæjarklaustur, sulla strada tra Vík í Mýrdal e Jökulsárlón. Il mio amico Siggi mi aveva raccontato di come la sua bisnonna era venuta da quella zona e raggiunto l’area di Reykjavík, dove si è sposata, dopo un viaggio estenuante a cavallo, che non ripeté mai più. E nonostante lo avrebbe voluto, per i sessant’anni rimasti alla sua vita, non sarebbe più tornata. Oggi pensiamo al sud come la parte più accessibile dell’Islanda, con una buona strada e aree di sosta ben attrezzate, ma fin dalla colonizzazione, il Sud era la zona più isolata del Paese. Perfino gli abitanti dei fiordi a nord erano meglio connessi, addirittura anche con l’estero, grazie alle acque profonde dei loro fiordi che permettevano la realizzazione di porti. Il Sud, invece, con le sue coste basse e sabbiose, e spiagge che si estendono per decine di chilometri, non è l’ideale per le imbarcazioni, e l’entroterra è stato per larghi tratti piagato da eruzioni sub-glaciali che hanno causato le inondazioni le quali poi hanno creato i paesaggi lunari dei sandur, dilavando il suolo e striandolo con innumerevoli fiumi, più o meno profondi, che rappresentavano un ostacolo micidiale per gli spostamenti. I cavalli del Sud erano tra i pochi che sapevano nuotare con uomini in groppa, vista l’estrema necessità di questa abilità.

L’isolamento però ha portato conseguenze davvero interessanti: il dialetto locale conserva tratti arcaici – particolarmente nella pronuncia – che lo avvicinano di più all’Islandese antico rispetto alla varietà parlata a Reykjavík.

La strada dunque, per me, non è stata particolarmente difficile. Meno di quattro ore di viaggio, e sotto un sole meraviglioso, senza una bava di vento. Il Sud, particolarmente dopo Vík (quindi Sud-Est), è caratterizzato da questi lunghissimi dirupi che si stagliano a perdita d’occhio da Occidente a oriente, e che in tempi antichi rappresentavano le scogliere della costa, la quale si trova oggi a parecchi chilometri distanza, separata da essi per mezzo di sterminate pianure erbose, che forniscono un habitat ideale per i cavalli, di cui c’era così tanto bisogno in epoche passate.

La fattoria si trova proprio ai piedi di questi dirupi, ed è costituita da due case e diversi edifici annessi, come stalle e capanni. È uno dei luoghi in cui si svolge una saga degli islandesi detta Gunnars saga Kelsugnúpsfífls, ovvero la saga di Gunnar, l’idiota di Keldugnúpur, che è il promontorio che chiude l’avvallamento in cui si trova la fattoria.

Qui ho fatto subito amicizia con le due cagne, Vala e Skotta, e ho dato una mano a dar da mangiare alle 500 (!) pecore che si trovavano nelle stalle. Le giornate scorrono placide, tra il lavoro con gli animali, la preparazione dei pasti, e l’abbraccio meraviglioso di questa cornice paesaggistica. È stato piacevole ripulire le lunghissime mangiatoie dagli avanzi di fieno del pasto precedente e riempirle con del nuovo, per poi vedere tutte quelle bestie brucarlo avidamente, con le loro bellissime corna e la lana tosata di fresco. Tutto intorno era magico.

I belati, il vento che soffia, la nonna che arriva con una cesta di crespelle zuccherate, il caffè che non può mai mancare, le passeggiate sulla brughiera striata dalla neve, i canyon, le cascate…e i cavalli.

La famiglia della mia ragazza ne possiede una ventina. Non richiedono sforzi particolari, visto che vivono all’aperto e si arrangiano da soli per il cibo.

Uno degli aspetti che mi hanno folgorato maggiormente è stata la nonna, che vive nel l’edificio più vecchio della fattoria, e che conosce a menadito la storia della famiglia e della loro terra, a partire dal periodo medievale. Islandesi così se ne trovano davvero pochi. Oltre a lei ne ho trovato soltanto uno, il mio caro amico Siggi, che è professore di lettere classiche in pensione, che guarda caso è imparentato con questa famiglia. La signora poteva citare passaggi dai testi medievali, sciorinare intere genealogie e parlare a lungo di parentele vicine e lontane. Proprio come in una saga medievale, l’intreccio delle sue storie è costituito da una miriade di vite diverse che vanno prima o poi ad intersecarsi.

È stata un’esperienza incredibile, e qualcosa che un turista a cui interessa solo vedere l’aurora e fotografare gli iceberg di Jökulsárlón non potrà mai capire. Parlo del l’emozione di avere una finestra spalancata si un abisso di storia e cultura di un Paese nel quale puoi finalmente buttarti, anziché studiarlo sui libri o leggerlo in articoli. È qualcosa che incoraggerei chiunque a fare, se se ne presenta la possibilità e, parlando soprattutto ai giovanissimi squattrinati e disillusi: non perdetevi d’animo. Ero uno di voi anche io. Fa paura a uscire di casa. “E se…e se…e se…”. La tiritera mi è familiare. Purtroppo la vita è una sola, e non vale la pena guardarla passare sognando cose che non abbiamo trovato il coraggio di fare.

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