Avendo già letto le saghe in questione, ho preso con cuore più leggero la decisione di investre due giorni di questa settimana in un viaggio di un paio di giorni nel sud-est. Mai scelta fu più azzeccata. Essendo ormai inverno, i turisti si contano sulle dita di una mano, il tempo era bello e senza vento, e abbiamo apprezzato un paesaggio più drammatico di quello che si vede d’estate, con l’erba verdissima e il cielo azzurro anche a mezzanotte.
Abbiamo noleggiato una vettura a sette posti. Il costo complessivo del viaggio (a testa) è stato di un centinaio di euro, di cui 25 per l’ostello, 30 per la macchina compresa assicurazione e gravel protection. Il resto se ne è andato in benzina e vettovaglie.
La meta finale del viaggio era l’ostello, a Vagnstaðir, un grumo di tre casette e un paio di capannoni appollaiate su un declivio tra i monti del ghiacciaio Vatnajökull e il mare. Le tappe sono state numerose, la costa sud è densissima di punti di interesse
Quasi tutti gli stop erano direttamente sulla hringvegur, ovvero la strada principale dell’isola, che segue la costa tutt’intorno al perimetro. Essendo sostanzialmente l’unica autostrada, mi aspettavo qualcosa a numerose corsie con spartitraffico e corsie d’emergenza, ma evidentemente nemmeno il turismo di massa giustifica la costruzione di qualcosa di più della semplice striscia d’asfalto a due corsie che abbiamo trovato. Niente di male ovviamente. L’asfalto era ottimo e il traffico minimo.
Il primo stop è stato la cascata di Urriðafoss, la più grande in Islanda per portata d’acqua. Il sole era basso e il ghiaccio ricopriva le rocce. Era un bel paesaggio tutto sommato, ma non particolarmente impressionante.


Da qui si può camminare per circa cinquecento metri ad un’altra cascata, Gljúfrafoss, piuttosto magica: è nascosta in una gola, e si può osservare sia dall’alto arrampicandosi su una parete scoscesa, aggrappandosi a una catena fissata nella roccia (occhio perché è davvero pericoloso: col ghiaccio si scivola) sia saltellando sulle pietre che emergono dal torrente che sbuca dalla gola, per poi addentrarsi nell’apertura e osservare la cascata da sotto.
Ovviamente in passato si credeva che da queste parti ci abitassero gli elfi. Nemmeno poteva mancare lo stop all’Eyjafjallajökull, pensando a cosa debba essere stato per le persone che vivono alle sue pendici.
La cascata successiva si chiama Skógafoss, “cascata delle foreste”, anche se di piante mi sa che non se ne vedono dai tempi della colonizzazione. Questa è una signora cascata: altissima e imponente, con monti innevati non lontani. Si può salire con una comoda scala fin sopra e osservare il salto dall’alto.
A metà del viaggio ci siamo fermati a Vík, per far rifornimento di vettovaglie e alcolici al monopolio (Vínbúðin). La cottadina era alquanto deprimente. Poche migliaia di anime. Mi ha ricordato i paeselli sperduti nel nord-ovest della Scozia. C’è però qualcosa di incredibilmente bello nella brutezza di questi centri abitati dimenticati da dio. Una sorta di attaccamento ostinato alla vita, e una caparbietà nell’affrontare il proprio destino.
Osservando quelle costruzioni prefabbricate scolorite che ospitavano qualche negozio senza troppi clienti, ripensavo alle parole di Egils nella sua saga, dove sostiene che la sua bruttezza sia paragonabile all’ancestrale e drammatica bruttezza dei paesaggi primordiali. Una bruttezza che in ultima analisi è bellezza, nella sua drammaticità. Penso che la stessa cosa valga per questi luoghi. Alla fine le persone che ho visto sembravano rutto sommato felici e con un forte senso di comunità.
Vicino a Vík, abbiano fatto una lunga passeggiata sulla spiaggia nera di Reynisfjara, ammirando le colonne di basalto e i faraglioni – o come si chiamano.
Le ultime ore della giornata abbiano attraversato le immense distese di sabbia scura di Mýrdalssandur e Skeiðarársandur. Pianure sconfinate formate dai depositi alluvionali trasportati dalle acque di scioglimento dei ghiacciai. La strada è costantemente minacciata dalle alluvioni, e per questo ci sono diversi ponti, anche in punti dove sembra non ci sia acqua a giustificarne l’esistenza, uno dei quali è lungo circa un chilometro.
La sera siamo arrivati in ostello a Vagnstaðir che era già buio. Il supermercato più vicino è a 50 km (!), nella cittadina di Höfn. Meno male xhe ci eravamo riforniti già a Vík.
Il giorno successivo l’abbiamo dedicato alle highlights: i laghi glaciali e il parco nazionale di Skaftafell.
Il primissimo è stato il celeberrimo Jökulsárlón, “Laguna del fiume del ghiacciaio”, un ampio lago nel quale precipita una massiccia lingua dell’imponente ghiacciaio Vatnajökull, il più grande in Europa. Un colosso delle dimensioni del Molise. Grossi pezzi di ghiaccio si staccano e si ammassano sulle rive di questo lago, in cui nuotano le foche. Il silenzio era penetrante, l’odore particolare, e gli acricchiolii del ghiaccio superficiale si accompagnavano ai rari rombi cupi del ghiacciaio che scorreva inesorabile.
Il secondo, più piccolo, ma non meno impressionante, era il Fjallsárlón (laguna del fiume della montagna), raggiungibile con pazienza attraverso una sterrata piena di buche che devia dalla hringvegur. Anche qui lo spettacolo è possente. I picchi scoscesi sembrano contenere a malapena il volume colossale di quella calotta di ghiaccio mastodontica ci scivola parennemente verso il basso. L’atmosfera era primordiale, pristina. Qualcosa di viscerale e primigenio si scatena nel profondo dell’animo, e non saprei ben dire di cosa si tratta.
Terminata l’esperienza mistica dei laghi glaciali, ci siamo diretti a Skaftafell, nel parco nazionale del Vatnajökull o, per chi ammira l’islandese, Vatnajökulsþjóðgarður. Qui le possibilità di escursione sono infinite, noi abbiamo scelto di camminare dal Visitor Centre fino alla cascata di Svartifoss, “Cascata nera”. Il percorso è attraverso una foresta aggrovigliata di betulle nane, ed è davver grazioso. Man mano che si sale si ammirano i meandri sinuosi dei fiumi che si adagiano sulla pianura. Svartifoss è un posto alquanto strano. Io sono ateo e detesto la credulità popolare, ma avevo la netta sensazione di essere osservato. In alcuni buchi nelle pareti di roccia mi sembrava che ci fosse qualcosa che mi osservava. Pensavo ad animali o alla mia semplice immaginazione, ma la sensazione strana era comunque presente.
Luktima tappa è stata il canyon di Fjaðrárgljúfur. Per i fanatici di GOT, sembrava di essere dalle parti di Nido d’Aquila. Un salto verticale di circa un centinaio di metriin alcuni punti, e numerose pareti sottili che dall’orlo si spingevano perpendicolarmente nel cuore del canyon, offrendo una visuale più comoleta ai coraggiosi che rischiavano ad avventurarcisi. In alcuni punti c’era si e no lo spazio per un piede. Camminare in bilico su queste pareti non è roba per chi soffre di vertigini. Per loro c’è il percorso standard lungo il fianco. Senza bisogno di avventurarsi troppo.
Dopo questa tappa è stato tutto viaggio di ritorno. Siamo arrivati a Reykjavík intorno alle 9/10 di sera.
Il bilancio è assolutamente positivo. Una delle gite migliori che abbia mai fatto. Per niente problematica, abbastanza economica, e assolutamente impareggiabile per le mete toccate.
La settimana scorsa ho anche scalato la catena degli Esjan, oltre il golfo di Reykjavík, e ho assistito alla cerimonia di accensione della Imagine Peace Tower di Yoko Ono, ma ne parlerò più avanti: ho i paradigmi ad aspettarmi!
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