Viðey

Una delle perle che chi dedica poche ore o solo mezza giornata alla capitale Islandese finisce per perdersi, è l’isola di Viðey. Oggi un’area ricreativa tra le più amate dalla popolazione di Reykjavík, e uno dei punti più ricchi di storia del circondario.

Dal 15 maggio al 30 settembre, un traghetto collega l’isola al molo di Skarfabakki ogni giorno e ogni ora a partire dalle 10:15 fino alle 17:15. Il resto dell’anno il servizio funziona solo sabato e domenica dalle 13:15 alle 15:15. Il biglietto costa 1700 ISK, ma è gratis per chi possiede la City Card di Reykjavík.

L’isola è il punto emerso di un antico vulcano, ed ha una superficie di circa 1,7 km2, e conta 156 specie di piante, e 30 tipi di uccelli.

Come in tanti altri casi, è facile lasciarsi sfuggire la densa storia di questo luogo passeggiandovi: rimangono poche vestigia del suo glorioso passato. Il nome Viðey significa “Isola del legname”, nome che risulterà strano al visitatore, vista la totale assenza di alberi, ma è probabile che l’isola fosse coperta di betulle nel periodo della colonizzazione. Oltre ad essa, nel golfo, si trovano altre isole che indicano importanti risorse: Lundey, più ad est, è “Isola Pulcinella di mare”, Engey e Akurey, più a ovest, sono “Isola Prato” e “Isola Campo”. Dovevano essere isole assai utili ai primi coloni, che potevano recarvisi per l’approvvigionamento di importanti risorse. La presenza di queste risorse porta alcuni a pensare che non fu un caso se il primo insediamento permanente dell’isola fu fondato proprio a Reykjavík.

Uno scavo archeologico iniziato nel 1986 e completato nel 1995 ha portato alla luce intorno ai 20.000 reperti. Sono stati trovati resti archeologici fin dal X secolo. La storia documentata dell’isola di Viðey ha però inizio più tardi, nel 1226, quando il vescovo Magnús Gissurarson inviò una missiva ai proprietari terrieri della zona disponendo la fondazione di un monastero e chiedendo loro dei contributi, poiché centri religiosi esistevano già in tutte le altre parti d’Islanda meno che nel Sud. Il monastero fu consacrato e gestito da monaci dell’ordine agostiniano. Un potente signore locale, Þorvaldur Gissurarson, la acquisì e ne divenne essenzialmente il gestore, sebbene non diventò mai priore. Ma per il suo ruolo nelle fasi iniziali della vita di questo monastero, è talvolta considerato come il primo priore. Anche se il primo a fregiarsi di tale titolo fu Styrmir Kárason, autore del manoscritto perduto Styrmisbók, una delle versioni più antiche del Libro delle colonizzazioni, ovvero una delle fonti più antiche della storia islandese.

Presto il monastero divenne un importantissimo e florido centro culturale, con una ricca produzione libraria, testimoniata da numerosi cartulari. Il monastero arrivò a controllare terre fino alla penisola di Reykjanes.

All’inizio del ‘500, si intensificarono i contatti commerciali con i tedeschi, i quali iniziarono ad importare le idee della riforma protestante, che però in Islanda non incontrarono una calda accoglienza. Quando il re danese Cristiano III decide di abbracciare la riforma di Lutero, rendendo il Luteranesimo la religione di stato nel 1536, iniziano i problemi per l’Islanda: sovversivi luterani iniziano ad agire indisturbati ai danni dell’ordine ecclesiastico costituito.

L’interno della chiesa di Viðey.

Nel 1539, il re danese inviò in Islanda il suo primo rappresentante, un tedesco di nome Claus von Merwitz, che si insediò a Bessastaðir (dove si trova l’attuale residenza presidenziale), e si rivelò fin da subito un grandissimo mascalzone, al punto che fu accusato all’assemblea generale di razzia e omicidio, e una lettera di protesta fu inviata al re. Al suo seguito, come consigliere, si trova un tizio di Amburgo, Diðrik von Minden, descritto come violento e prono all’abuso nelle parole e nei fatti. Confiscava proprietà a suo piacimento e faceva il bello e il cattivo tempo, con il benestare del suo superiore. Questi due mascalzoni ebbero notizia che il re di Danimarca aveva preso a confiscare le proprietà ecclesiastiche in madrepatria, ed ebbero la geniale pensata di fare lo stesso in Islanda. Il monastero più vicino era appunto quello di Viðey, a meno di 10 km in linea d’aria. L’inverno 1538, Diðrik si trovava in Danimarca, dove chiese al re il permesso di prendere il controllo di Viðey. Ricevette – pare – l’autorizzazione del re a procedere, a patto di garantire la residenza e il vitto ai monaci finché sarebbero vissuti (questa disposizione sarebbe poi stata applicata anche per gli altri monasteri dissolti in seguito).

Il sabato prima della domenica di Pentecoste del 1539, Diðrik lasciò Bessastaðir con 12 uomini, quasi tutti tedeschi. Dopo un viaggio difficoltoso sul terreno lavico, raggiunsero Laugarnestangi (dove vado spesso a passeggiare la sera!) e lì presero una barca a remi per raggiungere l’isola di Viðey, rubandola al proprietario del luogo, il prete Einar Ólafsson. Raggiunsero il monastero di nascosto e fecero irruzione con i monaci addormentati, nudi nei loro letti (come era costume). Li picchiarono, percossero e frustarono così che rimasero insanguinati e pieni di lividi. Lo stesso trattamento fu riservato alle donne e ai bambini dell’isola. Obbligarono poi tutti gli abitanti a lasciare l’isola, e nei giorni successivi, Diðrik e i suoi spogliarono il monastero di ogni valore. Lui abbandonò poi l’Isola lasciando quattro dei suoi uomini a presidiarla.

Alla successiva riunione dell’assemblea generale, il vescovo Ögmundur chiese a Diðrik di produrre i documenti che provavano il suo aver agito secondo la volontà del re, ma questi non rispose. Ögmundur gli disse di voler portare il caso davanti alla legge, e Diðrik ribatté che la legge poteva andare al diavolo, ma all’assemblea fece poi leggere la lettera che autorizzava Claus von Merwitz a prendere il controllo di Viðey, e ne fece avere una copia al vescovo. Questi scrisse poi al re, spiegando cosa era successo a Viðey, e raccontando che Merwitz non aveva agito correttamente con la lettera del re producendone peraltro una versione diversa da quella originale. Claus von Merwitz e Diðrik furono condannati da un tribunale ecclesiastico nominato dal vescovo Ögmundur, dal momento che la legge prevedeva questa procedura nel caso di offesa a personalità della chiesa. La sentenza però rimase lettera morta, e Diðrik non ci fece troppo caso, anche se desiderava vendicarsi con il vescovo per quell’affronto.

Diðrik era ormai inebriato dal potere e proseguì la sua opera distruttrice, decidendo di recarsi a est per razziare i monasteri di Þykkvibær e Kirkjubær. Partì l’8 agosto 1539 con 9 uomini e un paggio di 12 anni. Sulla strada, però, si fece venire la (per lui) sciagurata idea di fare una deviazione verso la sede vescovile di Skálholt, per togliersi la soddisfazione di molestare il vescovo cattolico Ögmundur, all’epoca cieco e indifeso. Mandò due uomini a Oddi, verso est, dove lo avrebbero dovuto aspettare, e si recò dunque con il resto del suo seguito alla diocesi, dove si stabilì, mangiando e bevendo come gli pareva. Il giorno dopo si recò ad udienza dal vescovo il quale gli chiese per quale ragione avesse preso il controllo di un monastero senza che il re gli avesse conferito l’autorità per farlo. Diðrik gli rispose male e se ne andò. Più volte nello stesso giorno, fece irruzione nella stanza del vescovo andandolo a vituperare e maltrattare, dichiarando che avrebbe preso controllo di tutta l’Islanda con sei uomini. Questi non aveva modo di difendersi e dovette lasciarlo fare. Da cieco, non poteva fidarsi ad organizzare attività e rappresaglie, perché non poteva mai sincerarsi di chi ci fosse davvero ad ascoltare.

Successe però che un prete, Don (che in islandese si dice Séra) Jón Héðinsson, fervente cattolico e grande amico del vescovo, nonché amministratore della sede vescovile, venne a sapere di quello che era successo tra il vescovo e Diðrik, e fu lui a organizzare la sacrosanta rappresaglia. La notte successiva fece reclutare uomini affidabili, pregandoli di raggiungere Skálholt armati.

Quando la mattina Diðrik e i suoi si svegliarono, fu mandato un altro prete, Jón Björnsson, a servire loro birra con idromele per intossicarli. Don Jón, tuttavia, fece bere un po’ anche i suoi uomini prima di questi eventi. Pessima idea, perché ciò li rese più belligeranti, e chiassosi. Diðrik sentì dello scompiglio e si affacciò alla finestra, notando gli uomini armati. Inviò due dei suoi a prendere le pistole nella tenda che avevano all’esterno, ma appena l’ebbero raggiunta furono ammazzati. Come Diðrik si rese conto di ciò, cercò di uccidere Jón Björnsson, che gli aveva servito gli alcolici. Questi gli gettò il mantello addosso e corse fuori serrando la porta.

A quel punto gli uomini di Don Jón volevano fare irruzione nella stanza e uccidere Diðrik e i suoi. Entrarono nell’edificio e incrociarono sulla porta un islandese del seguito di Diðrik, Ólafur Ingimundarson, che li pregò di lasciarlo in vita in quanto “fratello islandese”. Quelli per tutta risposta gli dissero “Sei stato abbastanza a lungo a rubare con loro e per loro, e li hai seguiti nella vita, dunque puoi anche seguirli nella morte”, e lo trapassarono con una lancia.

Dopodiché cercarono di buttare giù la porta della stanza in cui Diðrik si era asserragliato, ma vi riuscirono solo quando uno di loro, Sveinn Þorsteinsson, si procurò un macigno che scagliò contro la porta, distruggendola. Fecero dunque irruzione e non trovarono grande resistenza, essendo Diðrik e i suoi quasi disarmati. Diðrik si difese usando un coltello e dei piatti come scudi, ma tale Jón Sigurðson detto “volpe”, fattore a Gröf, riuscì ad afferrarlo dietro alle spalle con la sua lancia uncinata e spingerlo a terra, dove lo tenne sotto il piede con la lancia tra la scapole e gli disse “provaci ora a vantarti di conquistare tutta l’Islanda con sei uomini”, mentre lo uccideva. Era il 10 agosto 1539.

I due uomini che Diðrik aveva mandato ad Oddi, Pétur Spons e Hans Witt furono intercettati così: gli inviarono un falso dispaccio in cui Diðrik indicava di aver cambiato idea e di essere intenzionato a raggiungere il nord passando per l’interno sulla via di Sprengisandur. Questi invertirono la marcia per raggiungerlo, e gli islandesi tesero loro un imboscata di notte. Pétur si difese valorosamente, ma un tale Jón Önnuson gli lanciò un’ascia nel cranio dicendo “Diðrik manda i suoi saluti”. Pétur era gravemente ferito, e cercò riparo in una chiesa vicina, ma un contadino che era lì vicino lo notò e gli impedì di passare, così che gli altri lo raggiunsero e lo finirono. Hans Witt fuggì a est ma fu raggiunto. Implorò pietà, ma non gli fu concessa, e fu trapassato con una lancia.

La notizia di queste uccisioni raggiunse poi la corte suprema, e in particolare il lögmaður Erlendur Þorvaldsson. Furono convocati i legali più in vista, e il 27 agosto di quello stesso anno il giudizio fu pronunciato per cui Diðrik e dei suoi erano criminali e razziatori e che i loro uccisori erano giustificati e assolti.

Appena giunse notizia di questa sentenza, gli uomini che la primavera precedente erano stati aggrediti a Viðey decisero di vendicarsi a loro volta. Raggiunsero il monastero, che era controllato solo da quattro uomini, i quali furono prontamente uccisi. Il processo che seguì fu volto ad accertare che le quattro vittime avessero effettivamente partecipato alla razzia del monastero, e furono nominati diversi testimoni, che confermarono la presenza dei quattro alla razzia. La sentenza fu pronunciata dunque in favore degli uccisori, dichiarati innocenti.

La storia successiva del monastero si intreccia con quella tragica e romantica dell’ultimo vescovo cattolico islandese, Jón Arason, capo della diocesi del nord. Questi oppose una strenua resistenza ai protestanti danesi, depose il primo vescovo luterano imposto da questi e si pose alla guida del Paese. Prese anche il controllo di Viðey, che fece fortificare, ma nello stesso anno, il 1550, fu catturato e poi ucciso dai danesi protestanti, così che il monastero venne definitivamente smantellato e le sue proprietà furono acquisite dalla corona danese.

Nel 1700, il primo rappresentante del re che fosse islandese di nascita, Skúli Magnússon, vi costruì la sua residenza, Viðeyjarstofa, completata nel 1755, e la più antica casa in muratura d’Islanda. Oggi ospita un ristorante e una sala eventi. Nel 1774, Skúli fece costruire una chiesa. Alla sua morte, l’inquilino successivo fu Ólafur Stephensen, primo governatore, che la abitò fino alla morte nel 1812. La casa fu comprata dal figlio Magnús, che la acquistò dalla corona, e rimase proprietà della famiglia fino alla fine del secolo.

L’ingresso di Viðeyjarstofa.

A inizio novecento, un’impresa privata vi costruì una stazione per la lavorazione del pesce, che diede l’impeto per lo sviluppo di un piccolo villaggio, con una ventina di case per alloggiare le famiglie dei lavoratori e una scuola.

La vecchia scuola che serviva il villaggio.

Nel 1930 contava 138 abitanti. Le attività cessarono nel 1931 e dal 1943 non ci furono più residenti.

Le rovine del villaggio.

Nel 1968 il mantenimento della casa di Skúli Magnússon ricadde sul museo nazionale, il quale la cedette al comune di Reykjavík nel 1986. Un importante restauro fu ultimato nel 1988.

Su quest’isola si trova una sorta di faro in cemento ideato da Yoko Ono che proietta un fascio di luce nel cielo tra il 9 ottobre e l’8 dicembre, le date di nascita e morte di John Lennon. Viene chiamato Imagine peace tower. Viene inoltre illuminato tra il 31 dicembre e il 6 gennaio, e intorno all’equinozio di primavera.


Le informazioni per questo articolo sono desunte in larga misura da Iceland’s 1100 years di Gunnar Karlsson (2020), e Vièeyjarklaustur di Árni Ólafur (1969).

4 risposte a “Viðey”

  1. Credo ci sia un errore nella frase “Nel 1939, il re danese inviò in Islanda il suo primo rappresentante…”, non dovrebbe essere nel 1539?

    1. Giusto! Grazie della segnalazione, ho corretto 🙂

  2. […] un bastoncello rinvenuto sull’isola di Viðey che riporta una porzione di […]

  3. Avatar Daniela Mari Griner
    Daniela Mari Griner

    Molto interessante, mi hai fatto venire voglia di visitare l’Islanda. Prima o poi…

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