Bene o male, chiunque abbia visitato l’Islanda — e particolarmente nella stagione estiva — si sarà imbattuto nelle pecore locali. Spesso ci si domanda come mai si trovino spesso a gruppetti di tre, perché siano lasciate incustodite, come mai abbiano le corna, e come facciano ad essere allevate. In questo articolo provo a soddisfare tutte le curiosità su questi animali così importanti per questo Paese.

La pecora islandese discende dai capi portati dai primi coloni nel IX secolo dopo Cristo, e presenta una serie di caratteristiche che l’hanno adattata al clima islandese. La sua lana, ad esempio, consta di un doppio strato con funzione isolante rispetto al calore e impermeabilizzante rispetto all’acqua. È dunque una lana perfetta per maglioni da utilizzare in attività all’aria aperta.
In Islanda, nel 2020, si contavano 415.949 pecore, ben più delle persone che sono circa 350.000. Il numero è in drastico calo: nel 1980 se ne contavano 827.927. Questi sono i numeri invernali, ovvero senza contare le nascite estive. In estate si aggiungono mediamente poco meno di due capi per pecora, così che il numero quasi triplica. La media può essere più alta in alcune fattorie, se ci sono tante pecore che partoriscono tre o più agnelli.
Di capre, per contro (nel 2020) se ne contano solo 1.471. La razza di capra islandese stava quasi per estinguersi, ma ultimamente sta tornando ad essere sfruttata in piccole realtà locali per il cashmere pregiato e per il latte, anche se con poco potenziale economico.
L’economia islandese si è retta per secoli soprattutto sull’allevamento degli ovini, e in misura più ridotta dei bovini. È soltanto dal ‘900, con l’avvento delle barche a motore, che la pesca è diventata una delle industrie più importanti. Resistono però ancora tante famiglie che portano avanti l’allevamento nello stile tradizionale, tenendo gli animali al caldo in stalla durante l’inverno, e lasciandoli liberi allo stato brado a pascolare per campi e altipiani durante l’estate.
Ancora oggi, sono parte della dieta per il 96% della popolazione, e il 46% dichiara di consumarne almeno una volta alla settimana. Si tratta di una carne, per quanto comune in Islanda, pregiata. È tenera, ha un sapore delicato ma distinto, e le bestie sono allevate senza mangimi od ormoni, dunque è un prodotto di elevatissima qualità.
Le regioni a più alta densità di allevamento ovino sono i fiordi occidentali e il nord-ovest. Il sud-ovest invece si concentra sul l’allevamento bovino, ma le pecore si vedono lo stesso ovunque!
Spesso si legge in rete che le pecore sono il principale fattore responsabile della mancanza di alberi, perché brucano ogni nuovo germoglio. Si dà dunque la colpa della mancanza di alberi in Islanda al lavoro degli allevatori. Ciò è però ingiusto: gran parte dei pascoli si trovano su altipiani dove alberi non crescerebbero comunque, e sono proprio gli allevatori (essendo i proprietari di gran parte dei terreni) a piantumare aree boschive sulle loro proprietà. Ragion per cui è insensato incolpare l’intero comparto allevamento per l’assenza di alberi.
Non esistono animali da allevamento altrettanto ben adattati all’Islanda come le pecore locali, e la loro carne è ad oggi uno degli alimenti più sostenibili producibili in Islanda: eliminarla significherebbe doverla rimpiazzare con prodotti di importazione, il cui trasporto avrebbe un impatto ben più deleterio sull’ambiente.
Le pecore si nutrono, salvo situazioni particolari, esclusivamente di erba, coltivata dagli stessi contadini nei campi che spesso si vedono viaggiando per l’Islanda, e che i turisti si domandano spesso a quale uso siano destinati. Il clima islandese non permette la coltivazione di molte specie vegetali, anche se la produzione in serra si espande continuamente e copre intorno alla metà del fabbisogno locale (consiste prevalentemente pomodori, cetrioli, funghi, peperoni, carote, broccoli, cavoli, verze e frutti di bosco).

Una volta si usava anche il latte delle pecore, ma il suo sfruttamento è diventato anti-economico, per cui non vedrete mai (ahimè!) del pecorino islandese. Il latte e i formaggi locali sono quasi tutti di origine bovina.
Le aziende agricole di medie dimensioni contano 5-600 capi, ai quali se ne possono aggiungere il doppio da maggio, quando nascono gli agnelli. In molti casi, a gestire tutto questo, ci sono solo due persone, marito e moglie, con l’eventuale aiuto di qualche parente o amico in occasioni particolari.
È un lavoro che non permette facilmente di riposarsi o di fare vacanza, e non ci si arricchisce perché anche qui spesso sono gli intermediari a ottenere i guadagni più elevati. Non e dunque una scelta che si fa per lucro, quella di diventare allevatori, ma per passione per uno stile di vita tradizionale a contatto con la natura. È il prezzo da pagare per poter consumare prodotti sani: la carne di pecora islandese è una prelibatezza rara e assolutamente biologica, di qualità superiore ad altre disponibili sul mercato.
Le pecore islandesi possono essere con o senza corna, a seconda delle preferenze del contadino, che può selezionarle. La differenza è soprattutto estetica, ma le corna hanno anche un’utilità pratica, perché siccome passano l’estate libere, quando vengono radunate in autunno tocca smistarle manualmente, riunendo le in un recinto e prendendo le proprie per portarle nel proprio scomparto.
Per il fatto che le nascite in Islanda avvengono più tardi, non esiste la tradizione dell’agnello pasquale, come la intendiamo noi, né si consumano agnellini. È considerato uno spreco tribolare tanto per far nascere un animale e poi consumarlo quando è ancora così piccolo. Il termine islandese per “agnello” si basa sull’età, e l’individuo fino a un anno è considerato “agnello”, anche se alla vista è indistinguibile dall’adulto, per uno che non se ne intende, dunque gli “agnelli” islandesi sono in realtà individui già cresciuti, che molti di noi non chiamerebbero nemmeno più “agnelli”.
Quando vedete le pecore a gruppi di tre, durante l’estate, in realtà si tratta di una madre con due “agnelli”, il che rende l’idea di come “agnello”, in islandese, abbia un significato ben più ampio di quello che gli diamo in italiano.

Da verso la metà di ottobre/inizio novembre fino ad aprile, le pecore sono tenute in stalla. Non c’è quasi nulla da mangiare fuori, il freddo è eccessivo e devono essere nutrite con la fienagione fatta l’estate precedente. In maggio nascono gli agnelli, e le neo-mamme sono separate le une dalle altre per starsene in pace con i loro piccoli, tramite delle barriere di legno posizionate lungo le file della stalla. Vengono condotte nei campi per lo svezzamento, che dura fino a quando compare abbastanza erba sugli altipiani.
Non tutte le pecore (come come per tutte le specie animali, inclusa quella umana) hanno naturalmente l’istinto materno. Alcune rifiutano categoricamente di allattare, e evitano i loro agnelli. In alcuni casi si riesce ad abituarle ad allattare, ma in altri è necessario fare adottare i loro agnelli da altre. Non è una faccenda semplice perché le mamme riconoscono i loro piccoli dall’odore. Si cerca dunque di ingannarle prendendo un agnello orfano e strofinandolo e cospargendolo dei liquidi e della placenta di un altro appena nato. Se si è fortunati la pecora li leccherà entrambi e riconoscerà come suoi. Se questo dovesse fallire, gli agnellini orfani sono tenuti separati per evitare che vengano calpestati senza pietà, e nutriti artificialmente attraverso una pompa che conduce il latte a delle tettarelle di gomma.

Alcuni agnelli prematuri o cagionevoli sono a rischio, nei primi giorni, per via del freddo. Per questo li si può riscaldare con un asciugacapelli tenendoli in braccio. Ripetendo il procedimento tante volte quanto necessario. Ogni animale riceve attenzioni commisurate ai suoi bisogni, il che richiede un lavoro incessante e tanta, tanta passione.
Dopo il periodo in cui gli agnelli svezzati stanno a pascolare nei campi attigui alle fattorie, vengono liberati sugli altipiani, dove restano indisturbati a pascolare fino a settembre/ottobre. Non ci sono predatori se non le volpi artiche, che comunque sono abbastanza rare.

Alla fine di agosto, che in Islanda è già autunno, i contadini salgono in gruppo a cavallo e sui quad per radunare tutte le pecore che incontrano, non importa che siano le loro o meno. Queste pecore vengono poi condotte in un recinto comune in attesa di essere smistate. La raccolta è detta smölun.

Gli smistamenti delle pecore, le famose réttir, sono tuttora uno dei momenti più sentiti del calendario islandese. Assumono i connotati di una cerimonia contadina, e islandesi di città si recano in campagna ad aiutare parenti e amici con il lavoro. A poco a poco, gruppi di pecore vengono convogliate nel cuore di un recinto circolare, diviso in tanti sotto-recinti disposti a raggiera come i petali di un fiore. Ogni fattoria possiede uno di questi. I contadini si recano nel mezzo dove le pecore sono riunite e ognuno si ripesca le sue controllando i cartellini e afferrandole per le corna.
Il processo non è doloroso per la bestia, se fatto correttamente, ma può essere doloroso per la persona che lo effettua. Calci, cornate e urti sono la norma, e il raduno è abbastanza impegnativo dal punto di vista fisico.
Se si vuole partecipare, si può chiedere nelle stazioni di servizio o nei bar della zona in cui ci si trova se sono previste réttir e quando è dove si terranno. La lista con le informazioni compare sui siti degli enti locali e su quotidiani come Bændablaðið, “Il foglio dei contadini”. Una volta sul posto, si può chiedere a chiunque se si può dare una mano, di solito ne sono felici! Vi indicheranno il numero di targhetta da individuare oppure direttamente i capi da afferrare. Una mano è sempre gradita!
Fondamentale avere dei guanti e degli stivali di gomma: c’è parecchio fango, nell’almenningur!
Le pecore vengono tosate due volte all’anno, a novembre e a marzo.

A prescindere dal periodo ufficiale dei raduni e degli smistamenti, la ricerca di pecore sugli altipiani e la loro raccolta può continuare fino a ottobre o anche oltre, se ne mancano alcune.
Parlo spesso dell’allevamento ovino in Islanda, perché esso costituisce un patrimonio intangibile della cultura locale, un ponte con il passato e un modello sostenibile a cui dovremmo aspirare. In Islanda non esiste il concetto di allevamento intensivo. Così come non esiste che grandi proprietari di immense strutture-lager deleghino il lavoro con le bestie a personale sottopagato e frustrato che sfoga i propri fastidì usando violenza contro gli animali, come succede spesso in giro per il mondo. In Islanda le pecore sono maneggiate da gente che ha fatto una scelta di vita tradizionale, a contatto con la natura e che ama gli animali. Si tratta però anche qui di realtà a rischio: non è un modello economico che permette di massimizzare i profitti, e alcune lobby spingono per invadere il mercato islandese di carne straniera a costo più basso, sempre in nome del libero mercato.

Nei miei numerosi reportage sulla vita agricola islandese, puntualmente arrivano commenti di persone che non hanno mai visto una pecora (e difatti vengo sempre corretto sul fatto che si tratterebbe di “capre”, perché chiaramente le pecore non possono avere le corna, secondo loro!). Queste persone credono di saperne di più di chi con gli animali ci lavora, o di poter partorire in pochi secondi metodi più intelligenti di gestirle di quanto gli islandesi non abbiano fatto nei passati mille anni.
Per esempio, a volte si commenta per partito preso che le pecore sarebbero ammassate nelle stalle. Tranquilli: gli spazi sono regolati, e l’ammassamento è più un effetto ottico dovuto alla prospettiva, come per certe foto tendenziose dei quotidiani italiani che parevano mostrare persone ammassate durante il lockdown, quando però erano tutte a debita distanza, distanza che non riesci a valutare se tutto quello che vedi è una fila di teste. Una pecora ha bisogno di un metro/un metro e mezzo di spazio nella stalla, ma le pecore in una fattoria islandese hanno assai di più: quando sono tutte in fila a mangiare, i recinti mostrano l’abbondante spazio che avanza. A prescindere da questo, sarebbe una completa idiozia dare loro più spazio: le pecore stanno in stalla in inverno non perché i contadini sono cattivi e avidi, ma perché fuori non c’è cibo e fa troppo freddo: stalle più grandi e semi-vuote sarebbero delle ghiacciaie, perché il calore delle bestie non basterebbe a riscaldarle, senza contare che (con il freddo in particolare) le pecore si ammassano da sole lo stesso. È il concetto di gregge: si riscaldano e si sentono più protette.

Alcuni invece trovano insensato il radunare tutte le pecore e smistarle manualmente come viene fatto nelle réttir. Non sarebbe più facile farne passare una alla volta, vedere il cartellino, e lasciarla prendere al proprietario, invece di rincorrerle nel caos generale? Ecco, prima di fare un’osservazione bisognerebbe domandarsi come mai un’idea così banale non sia già venuta agli islandesi nel corso di più di dieci secoli. Poi bisognerebbe ammettere che con tutta probabilità gli è venuta, ma non si è magari rivelata buona per motivi che sfuggono alla nostra comprensione. Capita spesso che ci vengano “idee geniali” in questioni delle quali sappiamo poco, e ci atteggiamo con fare supponente di fronte a persone magari esperte, trattandole da stupide, salvo poi renderci conto che gli stupidi siamo noi per non aver considerato alcune conseguenze delle nostre idee: le pecore non possono essere messe in fila e convogliate in modo ordinato una per una. Per istinto, se una si spaventa e corre via, tutte le altre le corrono dietro, e questo succede con scatti improvvisi e imprevedibili. Inoltre, ammesso che fosse possibile farle passare una ad una, con questo metodo ci vorrebbero giornate intere, al ritmo di tre pecore smistate al minuto. Nella mischia, ogni contadino può afferrare, in contemporanea a tanti altri, una o due delle proprie, e per ogni fattoria ci sono diverse persone tra parenti e amici (e turisti volenterosi!) ad aiutare.
Per chi non consuma carne o altri prodotti animali, l’Islanda ha un’attenzione abbastanza pronunciata alle esigenze dietetiche. Si trova sempre qualcosa di vegano/vegetariano nei menu dei ristoranti, e la scelta dei supermercati (salvo nei luoghi più sperduti) è piuttosto buona.
Adoro recarmi in campagna, specialmente qui nel sud-est, in questa regione d’Islanda così bucolica (in termini islandesi!), una delle più isolate, un paradiso agreste e un’oasi di verde abbracciata da immensi deserti di sabbia nera e circondata dalle calotte glaciali. È l’Islanda com’era una volta, e adoro tuffarmici.
Rispondi a Roberto Luigi PaganiAnnulla risposta