“Fiordo”, storia di un termine

Il fiordo è un qualcosa di molto presente nell’immaginario che ruota intorno al grande Nord. I fiordi sono lunghe insenature scavate dalle lingue di antichi ghiacciai che, una volta scomparsi, hanno lasciato alle spalle profondi solchi tra le montagne nei quali l’acqua dell’oceano è potuta penetrare. Il termine italiano “fiordo” è un prestito da un termine scandinavo, fjord, che a sua volta discende dall’antico nordico, e prima ancora dall’indoeuropeo, ovvero quella lingua che dovette essere parlata più o meno 5000 anni fa nell’Asia centrale, e che si è poi frammentata in dialetti dai quali derivano gran parte delle lingue dell’Europa, ma anche lingue dell’Asia, come il sanscrito e il persiano.

Lo studio dell’evoluzione delle lingue è estremamente affascinante, ed è qualcosa che procede con metodo scientifico. L’evoluzione delle lingue si spiega in altre parole con leggi, e le norme che le governano sono descritte da formule simili a quelle matematiche. Nello stabilire parentela tra le lingue si procede non con assonanze e somiglianze che potrebbero essere casuali, ma con l’individuazione di regole sistematiche e ripetibili.

La cosa curiosa, però, è che le mutazioni linguistiche, e in particolare quelle fonetiche, pur essendo fenomeni generalmente molto regolari — e per questi descrivibili con leggi e formule — tendono a creare irregolarità. Quando studiamo qualcosa di “irregolare” nelle grammatiche, ciò è solitamente divenuto tale a seguito di qualche mutazione linguistica che ha avuto un impatto diseguale, e la nostra parola per fiordo è un caso molto interessante di come dietro all’apparenza illogicità di certe regole grammaticali si nascondano fenomeni del tutto chiari e sensati.

La parola per fiordo, in islandese, è fjörður. Essa deriva da un termine protogermanico *ferthuz (un asterisco davanti a un termine indica che esso è stato ricostruito dai linguisti), a sua volta derivato indoeuropeo, *pértos, dal quale deriva anche il Latino portus. Il significato originale doveva essere quello di “passaggio, attraversamento”, e poi il senso si sarebbe specializzato in quello si “porto” latino e di “insenatura marina” nel nord. Porto e fiordo sono dunque la stessa parola originale, tramandata in italiano per due vie diverse. In linguistica, parole con la stessa origine ma forma e significato diversi vengono chiamate allotropi, ma anche doppiette o gemelli etimologici: capo e ceffo discendono entrambi dal latino caput, ma il secondo è passato dal francese chef, ma anche platea e piazza discendono entrambe dal latino platea, e cosa e causa, oppure raggio e razzo, prezzo e pregio. Generalmente una forma si è voluta normalmente in italiano, come piazza, mentre l’altra è stata re-introdotta dal latino, come platea, o da un’altra lingua, nella quale sono avvenuti mutamenti diversi, che poi spiegano la differenza tra porto e fiordo che non lascia subito intuire come queste sue parole fossero originariamente lo stesso termine.

Per capire come si è arrivati da pértos a *ferthuz e dunque a fiordo immaginatevi un fiorentino verace che pronuncia “la porta” come “la fortha”. Un mutamento di questo tipo (seppur con dettagli assai diversi) è subentrato nell’evoluzione dal protoindoeuropeo al protogermanico. Il protogermanico è una lingua ricostruita a partire dalla comparazione delle sue lingue discendenti, ovvero le lingue germaniche (inglese, lingue nordiche, tedesco, gotico…), ed era parlata nei secoli intorno all’inizio del primo millennio. Come la sua lingua sorella, il latino, aveva una serie di terminazioni (desinenze) per i sostantivi, gli aggettivi etc., che cambiavano a seconda del ruolo che il sostantivo aveva nella frase (se soggetto, oggetto, complemento di specificazione etc.).

Questo è molto importante nello studio dell’islandese perché, a differenza di quanto avvenuto in italiano o nelle lingue scandinave continentali, l’islandese ha mantenuto questo modo arcaico di modificare le parole alla fine per cambiare il loro significato. In norvegese esiste solo una parola fiord, che fa fiorder al plurale. Fine della storia. In islandese invece abbiamo una forma da usare se fiordo è soggetto, una se è oggetto, una sé è complemento di termine (al fiordo) e una se è complemento di specificazione (del fiordo): quattro forme, che moltiplicato per i due numeri, singolare e plurale, produce 8 forme, ciascuna caratterizzata da particolari terminazioni. Queste forme vengono chiamate casi.

In islandese moderno abbiamo dunque:

  • fjörður (soggetto), fjörð (oggetto), firði (compl. di termine), fjarðar (compl. di specific), che al plurale diventano:
  • firðir, firði, fjörðum, fjarða
“Croce Rossa ad Hafnarfjörður (e a Garðabær)”; notare come “ad Hafnarfjörður” sia Hafnarfirði, dove la sequenza è sostituita da i.

La cosa strana, come si può notare, è che anche la radice subisce mutamenti — apparentemente illogici — che frustrano gli studenti (comprensibilmente!) e mettono a disagio gli insegnanti di islandese madrelingua che non hanno studiato linguistica storica: perché abbiamo queste apparenti insensatezze? Perché a volte abbiamo una radice fjö- ed altre fi- oppure fja-? Qui la linguistica storica ci viene in aiuto.

Le terminazioni che caratterizzano le diverse forme di questa parola contenevano suoni vocalici diversi che, nell’evoluzione dal protogermanico all’antico nordico, hanno causato una serie di mutazioni. In alcuni casi, dopo aver causato la mutazione, sono poi spariti dalla pronuncia, così che il motivo di queste mutazioni non è più deducibile dalla forma che le parole hanno assunto in seguito. Il risultato è che la stessa parola mostra strane e apparentemente illogiche forme alternanti: fjö-/fi-/fja-. Pensate al sostantivo uomo, che al plurale fa uomini e non un più logico *uomi.

Se l’idea di suoni che si influenzano vicendevolmente vi sembra strana, tornate ad immaginarvi la vostra pronuncia toscana: la cosiddetta “gorgia” è un mutamento fonetico causato dalle vocali. Le consonanti p; t; k si indeboliscono e vengono aspirate quando si trovano tra vocali, per questo un toscano pronuncerebbe “i capitani” come “i hafithani”. Attenzione però: il mutamento non si verifica sempre e comunque, ma solo tra vocali, il che significa che la stessa parola può avere pronunce diverse: il nostro amico toscano direbbe “la hasa”, ma non “il haso”, visto che nel secondo esempio abbiamo una l che precede la c, e la l non causa questo mutamento. Dunque la parola casa, in toscano, ha due pronunce che si alternano a seconda della presenza o meno di una vocale alla fine della parola precedente. I toscani, ovviamente, pronunciano secondo questa regola in modo automatico, e se il toscano fosse la pronuncia standard dell’italiano, gli stranieri (ma anche noialtri non toscani) dovremmo studiare a scuola la regola per cui, in toscano, in certi casi di dice casa, mentre in altri si dice hasa.

Nel caso del termine per fiordo, in islandese, abbiamo un tipo di mutazione relativamente raro nelle lingue italiche, ma estremamente comune in quelle germaniche: la metafonia, o umlaut. Questo consiste in un’influenza esercitata da una vocale su un’altra, contenuta in una sillaba precedente. Siccome le vocali si pronunciano posizionando la lingua in certi punti della bocca e arrotondando o meno le labbra, può capitare che la lingua, nel corso del tempo, si sposti anticipatamente nella posizione che le serve per la pronuncia di una vocale successiva, o che le labbra si arrotondino già nella sillaba precedente a quella in cui dovrebbero: se abbiamo una vocale pronunciata muovendo la lingua nella parte posteriore della bocca, come la o o la u, seguita da una vocale pronunciata nella parte anteriore, come la i, la vocale posteriore potrebbe venire trascinata davanti, più vicina alla i. Questo processo fa trasformare i suoni o/u in quello che in tedesco scriviamo “ö/ü”. Le vocali posteriori, invece, possono “contaminare” quella anteriore con il loro tratto di arrotondamento labiale: una o o una u possono influenzare una e o una i precedenti portando a pronunciarle con le labbra arrotondate, e anche in quel caso avremo le pronuncie “ö/ü”.

Per tornare alla nostra parola per “fiordo”, bisogna immaginare che terminazioni diverse hanno portato la radice *pert > *ferth ad evolversi in modi diversi.

Singolare:

  • *feuz (fiordo, soggetto)
  • *feų (fiordo, oggetto)
  • *fiiwi (al fiordo)
  • *feauz (del fiordo)
  • *feū (con il fiordo)

Plurale:

  • *fiiwiz (fiordi, soggetto)
  • *ferþunz (fiordi, oggetto)
  • *ferþumaz (ai fiordi)
  • *firþiwǫ̂ (dei fiordi)
  • *feumiz (con i fiordi)

Le somiglianze con il latino sono davvero forti, anche se non immediatamente ovvie a chi non mastica la linguistica storica, ma non ce ne occuperemo in questa sede. Guardiamo invece l’evoluzione da questo paradigma a quello dell’antico nordico, e poi a quello dell’islandese.

Notiamo intanto che, nonostante la generale uniformità della radice *ferþ-, al nominativo dativo singolare e al nominativo plurale abbiamo già *firþ-, questo perché la i della desinenza –iwi/-iwiz provoca il trascinamento della e radicale più in alto della bocca, trasformandola dunque in una i. Se la cosa vi sembra illogica, provate a pronunciare una e molto chiusa e provate a chiuderla ancora di più, sentirete che il suono ottenuto sarà quasi quello di una i!

Questo viene mantenuto nell’antico nordico, e la sua origine è ancora comprensibile perché una i si mantiene nelle desinenze. Se osservate però le altre forme in antico nordico, troviamo diverse cose strane. Vediamole:

  • fjǫrðr, fjǫrð, firði, fjarðar
  • firðir, fjǫrðu, fjǫrðum, fjarða

Intanto abbiamo una forma in meno: l’ultima forma del protogermanico è scomparsa, e si è fusa con la terza (questo si osserva anche in latino: per chi lo conosce, ripetete a memoria la seconda e la terza declinazione e vi accorgerete che dativo e ablativo sono identici). Se non altro, questo ci dà una forma in meno da ricordare!

Concentriamoci sulle vocali: troviamo che tutte le e sono state sostituite da una profusione di e di ja. Cosa è successo? In proto-nordico si è avviato un mutamento linguistico detto frattura, per cui una e accentata seguita da u si è evoluta in (pronunciato iò con una o aperta), probabilmente attraverso una fase intermedia , mentre quando era seguita da a nella sillaba successiva si è evoluta in ja (probabilmente attraverso una fase ea).

Notare come la vocale che causa la mutazione è poi sparita dalla pronuncia in alcuni casi, per esempio al nominativo e accusativo singolare, lasciandosi però dietro la vocale trasformata. Questo non stupisce, anche noi ci mangiamo o storpiamo lettere quando parliamo velocemente, e a forza di mangiarle o storpiarle le generazioni successive le imparano sempre meno fino a che spariscono dalla lingua!

In soldoni, l’alternanza tra fjǫ-, fi- e fja- deriva dal fatto che una e originaria è stata modificata in tre modi diversi a seconda che fosse anticamente seguita da u, da i o da a.

Abbiamo però un’eccezione che non si spiega con questa regola di mutamento: *firþiwǫ̂ (dei fiordi) diventa fjaa. In questo caso la spiegazione è che questa forma è stata rimodellata sulla base di quella tipica di altre parole, e che è più frequente. In italiano moderno non diciamo più il peccato/le peccata come in italiano antico (ovvero secondo la stessa regola di uovo/uova, dito/dita, lenzuolo/lenzuola etc.), ma diciamo il peccato/i peccati secondo il modello più frequente…e a volte ci scappano anche “gli uovi, i diti” etc.!

Per quanto riguarda le consonanti, la storia è più complicata e noiosa, e non voglio addentrarmici troppo, se non per dire che il passaggio da th-sordo (þ) a sonoro (ð) è un evoluzione normale in corpo di parola, e che il passaggio da z (che sta per la s sonora di sbaglio) a r è un fenomeno molto comune e lo troviamo anche in latino: il sostantivo flos “fiore”, all’ablativo fa flore (da cui l’italiano fiore) e non “flose” come ci aspetteremmo, perché la s era diventata sonora tra vocali (sempre come quella di sbaglio, o della pronuncia settentrionale di casa) e si era poi evoluta in r: *flose > *floze > flore.

Passa poi qualche secolo, siamo nel 1200 in Islanda: in questo secolo, gli islandesi hanno preso a confondere nella pronuncia il suono della o aperta, che scriviamo “ǫ” con quello della ø (simile alla ö tedesca). Lo sappiamo perché in questo secolo iniziano a confondere le lettere per l’una con quelle per l’altra nei manoscritti, segno che non sapevano più distinguerle bene. Il risultato è che tutti gli dell’islandese antico diventano in islandese moderno.

Tra il 1300 e il 1500 succede anche un’altra cosa, tra le desinenze in –r e le radici che terminavano in consonante, come appunto fjǫrðr, il nominativo singolare, compare una vocale di appoggio che rende la pronuncia più agevole (meno male: l’Islandese sarebbe infinitamente più brutto senza questa aggraziata vocale a spezzare certi grumi consonantici!). Il risultato è la forma fjörður, quella dell’islandese moderno.

Più tardi, in età moderna, è stata la volta del mutamento analogico, ovvero quello per cui i bambini dicono “gli uovi” e “i diti”. Perché non dovrebbero? Tutte le parole maschili singolari che conoscono fanno –i al plurale, perché queste dovrebbero essere diverse? Nel caso di fjörður è stato l’accusativo plurale, fjörðu, a venire uniformato al nominativo plurale, secondo lo schema di altre parole più frequenti: non più firðir e fjörðu, ma firðir e firði, più logico.

Ecco che si conclude (per ora!) la lunga storia che ci ha condotto, nel corso di cinquemila anni, da un “porto” a un “fiordo”!

2 risposte a ““Fiordo”, storia di un termine”

  1. Molto interessante

  2. Davvero interessante, complimenti! Ogni tanto cerco di inserire nelle mie lezioni qualche trafila o qualche mutamento linguistico, vedo che gli studenti, anche se giovanissimi, apprezzano molto.

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