Il venerdì della tredicesima settimana d’inverno cade sempre tra il 19 e il 25 gennaio (con un rapido calcolo potrete facilmente capire che qui l’inverno si considera iniziato dalla fine di Ottobre). Secondo l’antico calendario lunare, che in Islanda rimase in uso fino al 1700 in quanto più adatto ai ritmi di vita locali di quello gregoriano, in questo giorno sarebbe cominciato il mese di Þorri (pronunciato “th-òrre”, con th inglese ed é-finale molto chiusa).
Questo giorno è tradizionalmente chiamato Bóndadagur (pronunciato più o meno “póuntatagür”, con la g che quasi non si sente), ovvero il “Giorno del compagno”. Oggi le ragazze e le donne islandesi, oltre a fare gli auguri ai loro partner, offrono loro fiori o qualche regalino. È molto comune che cucinino qualcosa di speciale o che li portino fuori a mangiare. Gli uomini si sdebitano poi il mese successivo, detto Góa, il primo giorno del quale ricorre il Konudagur, “giorno della donna”. Così che quello che per noi è San Valentino, qui è tradizionalmente spezzato in due occasioni separate.
All’inizio di questo mese sussistevano diverse tradizioni curiose, che variavano da zona a zona: la donna dava il benvenuto alla personificazione del mese stando sulla porta e pregandolo di non essere troppo duro, oppure in altre zone l’uomo correva intorno alla casa con un pantalone infilato su una caviglia, e trascinandosi dietro le braghe (lo so, sanno essere strani…).
Era però anche uso che il capofamiglia ricevesse il cibo migliore che era disponibile, come il rognone, o un pezzo di torace, assieme a pane o frittelle (“migliore” è molto relativo: ricordiamo che siamo in Islanda e nel cuore dell’età moderna: in piena piccola era glaciale, durata tra il 1400 e la fine del 1800!). La donna poteva portarglieli a letto in un vassoio. Da qui deriva probabilmente il costume odierno per cui le donne portano fuori i loro compagni a cena.
In questi giorni di fine gennaio/inizio febbraio si festeggiano anche i famosi Þorrablót, o riunioni conviviali di varie associazioni o gruppi sociali in cui vengono recitate poesie, cantate canzoni e nei quali si tengono discorsi. Si tratta di un costume originato verso la fine dell’Ottocento tra i circoli di studenti islandesi in Danimarca. La parola blót in islandese indica il sacrificio agli dei. È assai improbabile che venissero offerti sacrifici agli dèi nel mese di Þorri, quando le provviste per l’inverno erano agli sgoccioli e mancavano ancora 3 mesi al tepore primaverile, quindi non si tratta di una tradizione molto antica, ma è comunque molto sentita dalle vecchie generazioni (purtroppo non molto tra quelle nuove). Dagli anni ’60 del Novecento, in occasione del Þorrablót si consuma il Þorramatur, ovvero “cibo di Þorri”, ovvero il cibo tradizionale che oramai non viene quasi mai più mangiato se non appunto in questa occasione, per mantenere vivo il ricordo del passato culinario islandese (sarebbe come fare un festival della Cassœula in parte della Lombardia).
Non è (per fortuna!) più comune che le donne offrano cibi tradizionali ai loro compagni in occasione del Bóndadagur, e si preferisce qualcosa di più raffinato. Il consumo di questo cibo, pur sopravvivendo in famiglie che ne fanno uso ogni tanto per mantenere la tradizione, è qualcosa che viene fatto una volta all’anno in società, appunto in occasione di questa festa. A quanto pare molti turisti sono attratti da questo pezzo di storia dell’Islanda, quindi è sempre più comune trovarne alcuni esempi nei supermercati per tutto l’anno – penso allo squalo fermentato, alla testa di pecora, al sanguinaccio, alla gelatina di testa di pecora e alla salsiccia di fegato. Se non altro in questo caso il turismo è servito a preservare qualcosa dell’Islanda com’era una volta!
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